Promesso, non parlerò mai più male dei turisti giapponesi che visitano tutte le capitali europee in una settimana, anzi, hanno la mia piena solidarietà perché sono una di loro. Come dice bene Castaneda, per il viaggiatore la meta non è la destinazione finale, la città la montagna o il museo che visiterai, ma il viaggio stesso con il suo bagaglio di incontri emozioni e sensazioni; il turista invece consuma ciò che vede, pronto per la tappa successiva. Ecco, sono tornata con la fame dell'India, perché in qualche modo ho l'impressione di aver solo"consumato" delle occasioni.
Ahmedabad-Udaipur-Jaipur-Agra-NewDehli-Chandigar-Amritsar-New Dehli, il nord-ovest dell'India in 12 giorni, 12 notti in 12 alberghi diversi. Aerei, autobus,treni, risciò, dorso d'elefante, piedi, è mancata solo l'esperienza del tappeto volante.
L'India è un paese sterminato, lo so, praticamente un continente e di Indie ce ne sono tante, so pure questo, ma mi chiedo quale ho visto io. Forse quella "moderna" e non turistica di Le Corbusier, architetto mitico del '900 che conoscevo solo di nome? Nel fervore di una rivoluzione epocale, finalmente la sua indipendenza, l'India si vuole aprire al cambiamento ed alla modernità offrendo il paese all'architettura contemporanea. Ad Ahmedabad città colta ed industriale Le Corbusier progetta alcune ville private, fra cui quella della famiglia Sahrabati,
ricchi industriali tessili e la camera di commercio dei tessitori,
luogo d'incontri e di rappresentanza per gli operatori del settore. Anche Louis Kahn raccoglie la sfida e progetta un'università di architettura moderna, grandiosa ed austera.
Costruzioni molto interessanti quelle di Le Corbusier, di primo acchito mi sembrano un orrore: enormi volumi squadrati di cemento invecchiato male. Poi entri, guardi, giri e la bellezza ti si rivela, con alcune soluzioni che si ritrovano puntualmente, e che difatti rivedrò a Chandigar, una città tutta intera progettata a tavolino dall'architetto.
Pochissimi spazi chiusi e grandi volumi aperti, una intera parete dipinta colorata che spezza e vivifica la severità monotonale del grigio cemento, porte immense che sembrano sospese nel vuoto,
nel cielo, nella natura e regalano scorci inattesi, soluzioni architettoniche inaspettatamente rotonde che magari ospitano un bagno, ma che servono ad interrompere la severità delle forme squadrate, finestre con vetri a svariate dimensioni, lunghi e stretti, come una melodia che si snoda dallo spartito, si chiama "modulor" una sinergia studiata dal maestro tra architettura e musica. Chandigar è interamente inventata dal nulla
e concepita sul foglio bianco come Brasilia, secondo principi e criteri dell'architetto. Tutto è stato pensato, voluto, pianificato: il parlamento, il tribunale, le piazze, le strade alberate, i quartieri, i negozi, le scuole, i luoghi d'incontro, gli spazi del vivere sociale e privato insomma. L'urbanistica pensa ai bisogni dell'uomo, ma in questo caso li ha preceduti, sono gli abitanti che si sono dovuti adattare alla città e non viceversa. Bello? Francamente non so, perché io ci ho sentito una forzatura, una violenza, l'imposizione di una città che non si è costituita "naturalmente nel tempo". Interessante? Si, perché ti rendi conto di come l'habitat condizioni l'organizzazione di vita. Gli indiani che vivono a Chandigar dicono di essere molto fieri di abitare questa città "modello", larga e spaziosa, a me è sembrato invece che "giustamente" tentino di "indianizzarla" con il casino, il traffico, il rumore, le cose, la gente, la merce accatastata, senza in realtà riuscirci veramente perché la struttura stessa della città non lo permette ed impone altre modalità. Una città per l'uomo oppure un uomo per la città? Non sono un architetto e non ne capisco niente, però sarebbe interessante rifletterci.
Udaipur, Jaipur, Agra, del giro in Rajasthan non dico niente. Ci sono talmente tanti libri e reportage che illustrano la magnificenza,
vera magnificenza delle costruzioni Moghol . L'austerità dell'architettura, la nobiltà dei materiali, la ricchezza degli intarsi,
il tripudio dei colori, l'immensità degli spazi, l'essenzialità del bello parlano da soli, si guarda ammutoliti e basta;
mi dispiace però pensare che in qualche modo il bello assoluto porti con sé qualcosa di mortifero: non lo si tocca, non lo si vive, è da guardare in religioso silenzio, ma non ci appartiene, non fa parte del nostro vivere di tutti i giorni; come nei musei, quadri da capogiro, là fissi, immobili, poi torni a casa tua e guardi il poster in bagno o se ti va bene una litografia di qualità. Mi piacerebbe che il bello assoluto facesse parte della nostro quotidiano, quello di tutti s'intende, non solo appannaggio del marajà di turno, del magnate americano o del principe saudita.. Che so, una stanzetta con uso cucina da Ramses II ad Abu Simbel, un loculino dietro il Taj Mahal, "l'uomo che cammina " di Giacometti davanti al letto per ogni tuo risveglio, le bocche di Bonifacio sotto il davanzale. Le mie solite stronzate utopistiche!!!
Però dell'Osservatorio Astronomico a Jaipur devo dire di più, troppo bello. Si comincia con l'incantatore di serpenti fuori dall'ingresso che aspetta i turisti coglioni come me per offrirti non gratis naturalmente foto con sorriso sdentato e turbante in testa; si prosegue con un sole, un sole cocente che Napoli e Salvatore di Giacomo al confronto sembrano persi nella calotta polare ed infine tra le brume dei calori torridi si vede LUI, l'osservatorio, grandi costruzioni di pietra giallo-rosa distribuite sul suolo pronte a misurare il cielo ed i suoi misteri secondo una logica che ha le sue ragioni scientifiche, beato chi le conosce, strumenti di misurazione del 1700 dalle forme misteriose, tributo di un marajà illuminato alla scienza. Atmosfera surreale da brivido, ti senti meravigliosamente persa nel torpore metafisico e ti rendi conto che De Chirico non ha inventato niente, c'è già chi l'ha fatto prima di lui.