venerdì 19 ottobre 2007

Neghev, kibbutz e Eilat


L'indomani lasciamo il deserto di Giudea, il Neghev ci aspetta. Il paesaggio cambia, abbandoniamo i canyon e le rocce frastagliate, le montagne diventano più regolari, i colori di terra e pietre si accavallano fra bianchi, rossi e neri, lasciamo l'Arahvà, la strada del deserto e ci inoltriamo nel Ramat Haneghev, l'altipiano del Neghev, il verde comincia a rarefarsi, fa capolino solo dove ci sono i Waadi . Arriviamo a Sde Boker, il kibbutz di Ben Gurion, artefice e mitico primo ministro del sorgente nuovo stato di Israele. Oasi stupenda, casette di legno dipinto di sapore coloniale, prato verdissimo praticamente londinese,

si visita la sua casa, piena di foto, di libri e di documenti, la tomba sua e della moglie,

su cui leggo questa incisione : "The State of Israel, to exist, must go south"; non ne capisco subito il significato profondo, ma mi apparirà chiaro in seguito, strada facendo. Quello di Ben Gurion è rimasto, fra i pochissimi, un autentico kibbutz comunitario; ce ne spiega forse le ragioni un membro che passeggia con noi per i viali: certamente da un lato la sua portata storica e simbolica, ma anche il fatto che non si volle alle sue origini accettare le dure imposizioni del collettivismo spinto, il nucleo familiare fu da subito preservato, tanto è vero che Sde Boker non fu considerato all'epoca un vero kibbutz, beh adesso lui lo è ancora, e gli altri no.
Verso sera arriviamo a Shivta, l'antica città di Subotea, fondata forse nell'ultimo secolo prima di Cristo dai nabatei, tribù di ebrei convertitasi al cristianesimo, con Petra come capitale. Per i carovanieri Shivta, particolarmente in epoca bizantina, era una tappa sulla strada dell'incenso, Jemen, Eilat, Petra, Gaza per mare o per terra, alcune delle altre; è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. Il silenzio intorno è quasi irreale, vicino alle rovine c'è una casa di pietre,
è lì che quel matto di mio cugino ha deciso di dormire per farmi scoprire l'emozione del deserto, quello reale, sono stata accontentata. Ci abitano Ayala ed Ami, una giovane coppia ed i loro tre figli. Sono venuti a vivere qua 12 anni fa, hanno acquistato la costruzione rudimentale che era servita da casa agli operai durante il recupero delle rovine archeologiche di Shivta e da allora non fanno che migliorare e ristrutturare, campano affittando le due stanze che abbiamo preso e servendo un pranzo ai turisti dell'antica città anabatea.

Ayala e Amir volevano fare una scelta di vita diversa, estrema, per 6 anni hanno vissuto qui senza acqua in casa, i figli sono venuti dopo, insieme all'acqua. Sono sereni, hanno imparato a conoscere il silenzio e l'isolamento e non ne hanno paura, i bambini giocano liberamente, il centro più vicino è a Nizana, a una trentina di chilometri; penso una prima volta alle parole di Ben Gurion. Al tramonto ci sediamo nel patio, c'è lo stupore dello spettacolo assoluto e sterminato intorno, poi troveremo una stupenda tavola imbandita con pita calda, insalata, olive, formaggio, pollo, riso e Ayala che racconta il suo percorso, forse la prossima volta la troveremo con i capelli raccolti e coperti e le calze scure sulle gambe, una sua svolta religiosa mi è sembrata imminente.

L'indomani con Amir andiamo su una vecchia jeep tutto il giorno in giro per il deserto. Naturalmente il deserto è deserto solo per quelli che non conoscono e non sanno vedere, ma per lui, che lo conosce e lo ama, tutto parla, anche la cacca delle capre.

Il paesaggio è vario, dune rosse di sabbia finissima,

waadi bianchi e poi sassi bianchi e neri e terra. Alla nostra destra il confine ben visibile con l'Egitto, il Sinai: improvvisamente su questa immensa superficie così dura ed ostica appare una lunga fila di colonne, è una scultura dell'artista Dani Karavan, l'ho interpretata come un ponte fra due mondi, i politici mettono i confini con pali e filo spinato, gli artisti sognano, e menomale!

Arriviamo al nuovo moshav di Ber Milka. Il moshav, altra tipica realtà israeliana, è all'origine una comunità agricola; ce ne sono di vari tipi in giro per Israele, da quelli che non condividono praticamente nulla, tutto di proprietà privata, ogni casa diversa dalle altre, semplici agglomerati residenziali nel verde insomma, a quelli che condividono i mezzi di produzione agricoli, a quelli metà kibbutz metà moshav. Qui, a Ber Milka per il momento non c'è quasi nulla solo una decina di container che fungono da casa; ci vengono incontro due giovani, due fratelli, sorridenti, lo sguardo esaltato, uno con due bambini piccolissimi in braccio, mamma che coraggio, il pediatra dov'è? Sono degli ebrei messianici, mi dicono, pensano che il messia sia stato Cristo. Mentre ci raccontano del loro sogno fra mille difficoltà di costruire qui un posto bello come Sde Boker e del governo che non li aiuta come loro speravano, avanza con fatica un vecchio camion

tutto caracollante pieno di vecchi mobili, pentole, materassi e carabattole di ogni genere; è un altro giovane, loro amico, che si è deciso al grande passo di venire a vivere qui, si abbracciano, le scelte comuni uniscono. Non so perché ma mi vengono le lacrime agli occhi, mi commuovo. Per una disincantata europea un po' "blasée" come dicono i francesi, parole come "ideale, pioniere", sono reperti archeologici, parole morte da resuscitare solo sul vocabolario, qui invece diventano vere e reali, ancora attuali, questi matti credono in qualcosa, hanno un sogno, sono disposti a rimboccarsi le maniche per trasformare questo deserto che sta loro intorno in un futuro giardino. Una volta ancora ripenso alle parole di Ben Gurion. Nel cielo spunta uno Zeppelin, controlla tutto perché siamo vicini alla centrale nucleare israeliana, la intravediamo da lontano, un cartello dice Mahané Kamus, campo segretissimo, il solito spirito autoironico della mia tribù.

Capitiamo poi in un altro moshav, insediamento ventennale, Kadesh Barnea, tutt'altro genere: belle villette e giardini a profusione. Ci vive una comunità che definirei hyppie. Producono formaggio ed altri prodotti alimentari biologici, le parti comuni sono malconce e trasandate, ma le case no, costruite ciascuna ai confini del deserto,

sembrano tutte voler essere costantemente a contatto con l'assoluto, l'occhio si perde in un orizzonte senza fine avvolto nel suo mistero; dei bambini lerci da morire giocano, raccontano in francese che dopo l'India i genitori sono venuti a vivere qui. L'indomani mattina ci congediamo con calore da Ayala e Amir e partiamo per Beer Sheva, l'unica grande città nel deserto, alla stazione

lasceremo Agar che deve tornare prima a Londra.

Beer Sheva è brutta, povera e modernissima, costruita ex-nihilo, ci abitano gli attuali israeliani di serie b, russi, marocchini e falasha, vedo anche molte donne druse.

Da sola ormai con Eldad iniziamo la discesa verso Eilat.

Prima a Mizpe Ramon, 1200 metri di altezza, davanti al più grande cratere non vulcanico del mondo. Una catena montagnosa spettacolare si erge come un immenso anfiteatro, mi fa pensare ai westeroni di Sergio Leone, all'Australia o al sud degli States visti solo al cinema, uno sballo, magari spunterà un gringo o Geronimo. Attraversiamo il cratere, la molteplicità dei colori ci segue sempre. Improvvisamente il cartello "Ashram in the desert", ci fa deviare. Tante tende, ognuna con grandi cartelli che indicano funzioni diverse per i vari momenti collettivi: quella per ascoltare ( Eldad ed io non ascoltiamo un bel niente e facciamo una pipi nature, beh davanti al deserto è un'altra cosa), quella per toccare, quella della rinascita (sul cartello c'è dipinto un bèbè col cordone ombelicale), il tempio del fumo (ehm ehm), la Buddhahall con davanti un Buddha di terracotta che francamente sembra un mostro di Halloween,

l'Heder Manhim ovvero la scuola dei maestri. Nella tenda bar ci sono un sacco di giovani, nessuno ci guarda, chissà, forse hanno già raggiunto il nirvana; la cosa che mi ha colpito di più è un cartello appeso su un albero con su scritto "parlami", all'albero si intende. Riprendiamo la strada per Eilat e finalmente verso il tramonto ci arriviamo. Che peccato, Eilat fa schifo, un'americanata pazzesca, albergoni mostruosi tipo Las Vegas spuntati disordinatamente come funghi dopo il temporale, tranne una scultura straordinaria nella hall di un albergo.

Un peccato perché la strada per arrivarci ed il sito sono semplicemente meravigliosi: alla sinistra tutta la catena giordana dei monti Adom (rossi) e rossi sono col sole che li inonda, ai piedi Aquaba, estesa ed illuminatissima, lungo la spiaggia un no-mans land che funge da frontiera fra Israele e la Giordania. Alla destra il confine con l'Egitto e la città egiziana di Taba, dove c'è appena stato un attentato. Racconto volentieri del bagno in mare e dell'aperitivo piedi nell'acqua sorseggiando nana, granita di limone e menta, momento divino, no comment sui 30 sushi ingurgitati da Eldad a cena sulla chiatta galleggiante Pago Pago con la scusa che erano tutti diversi e bisognava assaggiarli. Il giorno dopo la fine del mondo, tra le cose più belle mai viste in vita mia: a mezz'ora da Eilat il parco naturale di Timna, le antiche miniere di rame dei faraoni fino a Ramses V e di re Salomone.

Il silenzio è assoluto ed austero, la natura offre tutto il mistero della sua bellezza e colpisce perché viene da molto lontano nel tempo, il 14° secolo prima della nostra era: incredibili formazioni rocciose, incisioni rupestri, un fungo immenso naturalmente scolpito nella sabbia rossa, i cosiddetti Pilastri di re Salomone creatisi con l'erosione naturale e poi i colori incredibili di tutte queste formazioni, la terra rossa ferrosa, il verde del rame ossidato, il nero granito e bianco e giallo. Stupendo, stupendo, stupendo. Venerdì mattina inizia il ritorno verso Tel Aviv, sulla strada 90, lungo la Aravà. Ci fermiamo al kibbutz Yotvata con sosta autostradale, famoso per la sua produzione casearia e la coltivazione di datteri; sorpresa, la sala del ristorante è arredata con decine di sfere luminose indovina di chi?? Interessantissimo un altro kibbutz visitato dopo, Lotan, un ecosistema concepito e realizzato nel rispetto totale di tutti i principi di salvaguardia della natura e del risparmio delle risorse: case di terre, grotte di moderna architettura, riciclo degli scarti, attenzione ai materiali, tutti naturali, un prototipo di perfezione ambientale per il futuro.


Chissà, se è tramontato l'ideale del kibbutz, comunque positivo in quel momento storico per tutto ciò che ha costruito e significato, questa potrebbe essere la nuova sfida israeliana, la proposta di una terra abitabile diversamente, nel rispetto dell'uomo e dell'ambiente. Arriviamo a Tel Aviv di sera, mio cugino si libera finalmente di me, grazie Eldad,

sei stato una guida favolosa; mi ritrovo a rehovot Ilan, nella periferia di Tel Aviv, da Miriam, che non vedo da "solo" 38 anni.


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