L'incontro con Israele mi fa pensare, ogni volta che ci torno, a quei matrimoni concordati per corrispondenza dei nostri emigrati italiani di inizio secolo per le Americhe o la lontana Australia. Ci si scambia qualche fotografia, qualche letterina stentata con poche spicciole informazioni e poi via si parte, il matrimonio organizzato subito all'arrivo con una persona in realtà sconosciuta per permettere l'ingresso nel paese e che diventerà la compagna di una vita. Per Israele è uguale; leggo, m'informo, seguo attraverso la stampa le notizie politiche ed i dibattiti che animano la società sempre in subbuglio, ma in realtà non so niente, Israele è per me, e forse per molti ebrei della diaspora, una moglie sconosciuta da sposare "comunque ed a priori", una moglie che mi sorprende ogni volta che vado a trovarla. Ma procediamo con ordine.
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv subito la prima sorpresa: chiedo al controllo passaporti di mettermi il visto su un foglietto volante perché in molti paesi arabi non lo accettano e poi mi tocca cambiare passaporto: lo zelante impiegato armeggia col telefono per 15 minuti e poi mi dice che no, io sono israeliana d'ufficio, perché ci sono nata e quindi non ho diritto al foglietto. Anzi, cosa aspetto a rivolgermi all'ambasciata per avere la doppia nazionalità e doppio passaporto, oppure fare le pratiche burocratiche per depennarmi? Meno male che fare il militare non mi tocca comunque più. Fuori, caldo a trenta gradi, io ridicola con la giacca a vento milanese, mi aspetta il mio adorato cugino Eldad con la moglie Agar, londinesi da 18 anni, ma tre volte all'anno a casa per rivedere la famiglia. Subito sulla strada per il nord, nella valle Jeseel, fra Bassa Galilea e Samaria, cuore dello spirito kibbuzzistico ( neologismo?) degli anni ruggenti, qui più dell'80 % degli esistenti, per lasciare Agar dalla madre, a En Dor, il kibbutz dov'è nata. Traversiamo la periferia di Gerusalemme e poi il deserto di Giudea con paesaggi stupendi attraverso la Westbank, (gli israeliani tendono a non farlo, ma il momento è abbastanza tranquillo e Eldad è sempre un coraggioso). Subito mille spiegazioni che ho già dimenticato, ma i controlli ai vari posti di blocco, il muro che si snoda come un serpente a varie altezze e filo spinato a volontà, dovunque, quelli me li ricordo bene.
Ceniamo nel kibbutz, dalla madre di Agar, la Signora Ofer, esemplare autentico in via di estinzione di una generazione di pionieri che ha creduto in Israele e nell'ideale socialista della vita comunitaria, costruita dal nulla con lacrime e sangue per dirla alla Churchill. Casa piccola e modesta la sua, piena di libri, di vecchie cose, foto di famiglia e del posto, momenti di vita e di lavoro comunitari, in Europa la considereremmo la sistemazione provvisoria per una famiglia di terremotati, lei ci ha passato una vita e ne è molto fiera.
Sul tavolo in cucina un brodo di verdure con fagioli , cetrioli agrodolci, insalata di pomidoro e cetrioli, una mousse di sardine come una volta faceva la mia mamma, una specie di salame, vari tipi di formaggi bianchi, favoloso pane nero. La signora Ofer con il marito è venuta qui nel '45, ha scritto un libro sulla sua esperienza, peccato non tradotto, è stata una dei pionieri fondatori, un'idealista pura e dura, nel kibbutz ha sempre fatto l'insegnante, adesso organizza corsi di cultura ebraica per i nuovi arrivati ( soprattutto Olim che vengono dalla Russia) . Agar ha un ricordo terribile dei suoi primi vent'anni passati lì, e come lei pare che una generazione intera sia stata segnata in negativo dall'utopia fattasi realtà. Il nucleo familiare praticamente non esisteva, i bambini vivevano fra loro, vedevano i genitori solo un'ora e mezzo al giorno, i pasti sempre tutti insieme, tutto sempre collettivo, niente le apparteneva, non un giocattolo del cuore, manco le mutande o una maglietta , tutto sempre di tutti e quindi di nessuno, ridistribuito ogni giorno secondo i bisogni. Se si pensa al deserto diventato oasi di verde, alberi rigogliosi una volta impensabili ( di queste realtà ce ne sono all'incirca 250 fra il sud ed il nord), se si pensa a questo villaggio spuntato mattone dopo mattone su terra sabbia e roccia dove c'è ora ogni servizio, dal medico alla scuola ai negozi alla fabbrica, tutte le infrastrutture necessarie, è semplicemente straordinario e profondamente commovente. Solo la tensione ideale unita a tenacia e sacrificio immenso hanno permesso questo miracolo, ma nel tempo l'utopia ha rivelato anche tutti i suoi limiti e le sue ombre, l'ideale si è svuotato della sua carica, forse perché non teneva abbastanza conto dei bisogni degli uomini; ora il kibbutz in quanto tale non esiste praticamente più, salvo pochissime eccezioni: tutte le case sono diventate di proprietà, chi può si allarga, gli abitanti sono dei salariati, molti lavorano fuori, lungo i viali a volte la gente non si saluta nemmeno, tanti giovani se ne sono andati, quelli che vengono è perché la casa costa di meno che in città e si sta in mezzo al verde. Rimane per chi vuole il pasto comune in mensa a mezzogiorno, le feste celebrate insieme, i servizi per la collettività che vanno comunque pagati. La Signora Ofer ed Agar sono le due facce della medaglia, passato e presente, doloroso per la madre riconoscere che l'attuale realtà ha smarrito per strada i suoi valori costitutivi, difficile rendersi conto che l'ideale deve essere al servizio dell'uomo e non viceversa. Però così forte e dura, sicura di ciò in cui ha creduto, mi è proprio piaciuta ed incute rispetto. Sulla sua porta di casa c'è scritto:
Ceniamo nel kibbutz, dalla madre di Agar, la Signora Ofer, esemplare autentico in via di estinzione di una generazione di pionieri che ha creduto in Israele e nell'ideale socialista della vita comunitaria, costruita dal nulla con lacrime e sangue per dirla alla Churchill. Casa piccola e modesta la sua, piena di libri, di vecchie cose, foto di famiglia e del posto, momenti di vita e di lavoro comunitari, in Europa la considereremmo la sistemazione provvisoria per una famiglia di terremotati, lei ci ha passato una vita e ne è molto fiera.
Sul tavolo in cucina un brodo di verdure con fagioli , cetrioli agrodolci, insalata di pomidoro e cetrioli, una mousse di sardine come una volta faceva la mia mamma, una specie di salame, vari tipi di formaggi bianchi, favoloso pane nero. La signora Ofer con il marito è venuta qui nel '45, ha scritto un libro sulla sua esperienza, peccato non tradotto, è stata una dei pionieri fondatori, un'idealista pura e dura, nel kibbutz ha sempre fatto l'insegnante, adesso organizza corsi di cultura ebraica per i nuovi arrivati ( soprattutto Olim che vengono dalla Russia) . Agar ha un ricordo terribile dei suoi primi vent'anni passati lì, e come lei pare che una generazione intera sia stata segnata in negativo dall'utopia fattasi realtà. Il nucleo familiare praticamente non esisteva, i bambini vivevano fra loro, vedevano i genitori solo un'ora e mezzo al giorno, i pasti sempre tutti insieme, tutto sempre collettivo, niente le apparteneva, non un giocattolo del cuore, manco le mutande o una maglietta , tutto sempre di tutti e quindi di nessuno, ridistribuito ogni giorno secondo i bisogni. Se si pensa al deserto diventato oasi di verde, alberi rigogliosi una volta impensabili ( di queste realtà ce ne sono all'incirca 250 fra il sud ed il nord), se si pensa a questo villaggio spuntato mattone dopo mattone su terra sabbia e roccia dove c'è ora ogni servizio, dal medico alla scuola ai negozi alla fabbrica, tutte le infrastrutture necessarie, è semplicemente straordinario e profondamente commovente. Solo la tensione ideale unita a tenacia e sacrificio immenso hanno permesso questo miracolo, ma nel tempo l'utopia ha rivelato anche tutti i suoi limiti e le sue ombre, l'ideale si è svuotato della sua carica, forse perché non teneva abbastanza conto dei bisogni degli uomini; ora il kibbutz in quanto tale non esiste praticamente più, salvo pochissime eccezioni: tutte le case sono diventate di proprietà, chi può si allarga, gli abitanti sono dei salariati, molti lavorano fuori, lungo i viali a volte la gente non si saluta nemmeno, tanti giovani se ne sono andati, quelli che vengono è perché la casa costa di meno che in città e si sta in mezzo al verde. Rimane per chi vuole il pasto comune in mensa a mezzogiorno, le feste celebrate insieme, i servizi per la collettività che vanno comunque pagati. La Signora Ofer ed Agar sono le due facce della medaglia, passato e presente, doloroso per la madre riconoscere che l'attuale realtà ha smarrito per strada i suoi valori costitutivi, difficile rendersi conto che l'ideale deve essere al servizio dell'uomo e non viceversa. Però così forte e dura, sicura di ciò in cui ha creduto, mi è proprio piaciuta ed incute rispetto. Sulla sua porta di casa c'è scritto:
Shalom haver! Haver, ani socher: pace compagno ed amico! Amico, io ricorderò. Sono le parole di Clinton al funerale di Rabin. Anche ad 83 anni la Signora Ofer non rinuncia alla sua passione militante.
Dopo cena, via per Gerusalemme, ospiti da Dorit, la sorella di Eldad, buonissima, dolcissima ed incasinatissima. Sta a Pizgat Sehev, fuori le mura, uno dei quartieri sorti intorno alla cintura della città. Gerusalemme intra ed extra muros è forse l'unico posto in Israele, insieme alla vecchia Tel Aviv a dare l'impressione di un piano regolatore. Le costruzioni seguono un progetto architettonico coerente ed omogeneo e sono tutte in pietra ocra, quella che il terreno offre, già questo attribuisce alla città un fascino tutto particolare. Visitiamo lo stupendo mercato di Mahané Jeudà,
cuore pulsante della Gerusalemme ebraica fuori le mura, il famoso istituto d'arte Bezalel
e poi due vecchi quartieri adiacenti al mercato, uno sepharad e quello aschkenaz; le diverse architetture testimoniano chiaramente di mentalità e percorsi diversi. Quello sefardita è caratterizzato da singole villette individuali, piante e fiori spuntate disordinatamente qua e là, una fontanella in mezzo alle piazzette, mondo individuale che si apre verso l'esterno; il quartiere aschkenazita è proprio tutto il contrario: realtà chiusa all'esterno, ma aperta all'interno su immense corti comuni dove affacciano case di ringhiere, come le nostre di una volta.
Appartamenti minuscoli, appiccicati gli uni agli altri, poveri, sgarrupati, lunga fila di indumenti neri stesi ad asciugare al sole in cortile,
è la biancheria dei religiosi ortodossi, una vita intera spesa solo studiando, studiando ed ancora studiando, bambini pallidissimi che giocano, l'imprinting della vita del ghetto di un'improbabile Polonia che non c'è più; quella Polonia è finita in fumo e non in senso metaforico. Lì sembra che il tempo si sia fermato, subito fuori pulsa a mille allora, caotico e febbrile. L'indomani entriamo dalla porta di Damasco, quella del quartiere arabo, e giriamo per la città vecchia. Porta di Damasco, nome mitico, evocatore di secoli e secoli di storia, adesso le millenarie pietre d'ingresso alla città sono un immenso shuk a cielo aperto, fungono da supporto per decine di modelli di scarpe che fanno bella mostra di sé, paccottiglia orribile con la Cina vicina. Grande brulicare di vita, dolci stupendi da 5000 calorie in esposizione,
molta sporcizia, molti turisti, molti colori, molti odori, ci si sente in oriente.
In un postaccio Eldad mi fa mangiare un humus stupendo, la pita calda vi affonda dentro che è un piacere, mio cugino di mangiare se ne intende e non sbaglia quasi mai. La città vecchia è sempre bellissima con i suoi dedali di strade,
con i suoi tre luoghi sacri, la Spianata del Tempio con la Moschea, il Muro del Pianto ed il Santo Sepolcro che fungono da spartiacque delle diverse realtà. Questa volta non ho colto nell'aria quella spiritualità che in passato mi sembrava aleggiare sulla città, condensata sinergicamente dalla fede dei fedeli delle tre religioni. Chissà, forse ero io meno recettiva o forse è proprio vero che di spirito comunitario non ce n'è proprio, ognuno tira l'acqua al suo mulino; è tutta una divisione, un sottolineare con unghie e con denti il proprio pezzetto di territorio e la propria diversità, primo simbolo esemplificativo in tal senso proprio il Santo Sepolcro con le sue varie realtà cristiane così drasticamente delineate e difese. Camminando per il quartiere arabo, si vedono a volte dei tetti e dei terrazzi completamente circondati da filo spinato, con la bandiera israeliana che svetta, come delle enclavi ebraiche in territorio arabo.
Più che luogo per risiedere, sembrano postazioni in assetto di guerra, mi viene da pensare, sconcertante. Eldad mi spiega che sono ricchi ortodossi americani che a suon di dollaroni tentano di comprare a poco a poco agli arabi le loro proprietà a Gerusalemme; chi vende, vissuto naturalmente come un traditore dalla comunità palestinese-israeliana, lo fa in gran segreto e poi scompare.
Non commento. Mi sono detta, e l'ho pensato più volte durante il mio viaggio, che non ho alcuna competenza per esprimere giudizi benpensanti stando comoda ed al sicuro a bere il thè con i biscottini all'estero; io non li mando i miei figli a scuola sull'autobus senza sapere se torneranno a casa vivi o morti. Quella di Israele è una realtà talmente difficile e complessa che solo chi ci vive e ne vive tutti i risvolti, può dire la sua, magari sbagliata, ma ne ha sufficiente esperienza.
Domenica mattina si riparte con Eldad per la Galilea
a recuperare Agar, un'occhiatina al parco naturale Belvoir e poi via per il sud, finalmente. ..., strade selvatiche e solitarie, un deserto che non lo è perché cespugli bassi ma robusti si affacciano ovunque, il Waadi (il canyon del letto del fiume quando miracolosamente piove) Dargot regala degli scorci da mozzare il fiato. Prima tappa il mar Morto. Mega albergo design con Spa, non a caso siamo nella valle di Sodoma: facciamo tutte le cose dei viziati turisti europei, il bagno nel Mar Morto, massaggio con musica soffusa, acquisto creme con i Sali del mar Morto.
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