carico di fascino e di americanità. Da buoni turisti, subito a piedi a vedere la Casa Bianca,
proprio bianca ed in mezzo alla città, scoiattoli a profusione, riconosco all’esterno il luogo dei mitici sit-in contro la guerra in Vietnam ed in generale di tutti gli assembramenti popolari pro o contro qualche cosa, mancano i Beatles, ma ormai siamo tutti invecchiati e anche loro non ci sono più.
Bighelloniamo per le strade eleganti, larghe ed alberate, palazzoni austeri,i luoghi del potere in tutta la loro imponenza, colpisce il contrasto fra i ministeri e le frotte di homeless e di barboni che bivaccano nei giardini proprio accanto.
Chissà, forse sono un memento, attenzione, non è tutto oro quello che luccica. Ricca di un sacco di cose, l’America sembra avara di fantasia, strade senza nome, solo numeri e lettere dell’alfabeto, in compenso i semafori sono molto efficienti, oltre al verde dicono al pedone quanti secondi ha a disposizione per attraversare la strada. La città francamente è proprio bella,
pulita, ordinata, verdissima, dicono lo sia diventata, prima era molto povera e malconcia e, secondo i punti di vista, frequentata da troppi neri. L’indomani il culturbus ci porta in giro per tutto il giorno, sarà un’iniziativa molto turistica, ma francamente utilissima perchè si ferma in tutti i luoghi interessanti della città, scendi quando vuoi, visiti e poi risali, soprattutto ti dà una visione d’insieme dell’ agglomerato urbano. I mausolei dei vari presidenti sfilano, all’apice della collina di Georgetown la possente cattedrale gotica
e la superba strada delle ambasciate e poi la cosa che mi ha toccato di più, il famoso cimitero di Arlington.
Enormi distese di prato con infinite file di stele bianche, nulla più, molto semplice e molto toccante: sulle minuscole pietre sfilano nomi e nomi all’infinito,
prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale, guerra di Corea, guerra del Vietnam, le date dei morti raccontano in silenzio di una vita, raccontano anche la storia e la pazzia degli uomini, dietro le lapidi talvolta appare il nome della moglie, sepolta lì accanto, pazienza, anche da morte ci tocca stare defilate. C’è anche John Kennedy con la sua famiglia, figlio e figlia morti prematuramente,e lei, la mitica Jacqueline Bouvier . Non sono una moralista, ma francamente mi disturba leggere Kennedy Onassis, cazzo questo potere del denaro!!! Il venerdì 2 doveva essere giornata supercultura con la visita degli innumerevoli musei del Mall.
Si, si chiama Mall, ma non sono dei grandi magazzini, ma bensì un numero spropositato di musei, la Smithsonian Institution
che comprende 18 fra musei e gallerie, tutto rigorosamente gratuito, si spazia dall’arte africana
a quella asiatica, dal museo dello spazio
con navicella spaziale Apollo alla storia naturale con i dinosauri immortalati cinematograficamente da Spielberg in un suo film, dalla storia degli amerindi all’arte di tutte le epoche, un vero delirio del bello nei secoli e nelle varie culture. Con Camille cominciamo naturalmente dalla National Gallery of Art e la nuova straordinaria sezione
dedicata all’arte contemporanea dell’architetto Pei,
spazio museale di bellezza ed essenzialità formale incredibile. Sono le 11 del mattino, litighiamo a sangue davanti a una striscia dipinta sul muro di Jim Dine. Lo confesso, malgrado gli sforzi ho grosse difficoltà con l’arte contemporanea, non la capisco e non mi emoziona, Camille ne è invece una fans incondizionata. Tira vento di tempesta, è meglio che Telma e Luise si separino per la giornata, ci rivedremo alla sera in albergo. Visito da sola il museo dei nativi americani e poi, basta cultura, me ne vado a piedi al Waterfront
e al mercato del pesce. Siamo in America, non dimentichiamolo mai, tutto è superbig, pesci compresi: bancarelle che espongono quantità non dicibili di scampi, gamberi, sogliole, branzini, razze, tutti taglia extralarge.
La gente arriva, sceglie, si fa cucinare il pesce sulle griglie
e poi se lo porta a casa o va a mangiarlo sul molo. Io sul molo attacco bottone con una signora seduta col cane, è Anne Marie Engel, professore di francese alla Gorgetown University. Non so bene come sia successo, ma nel giro di un’ora ci siamo raccontate la nostra vita scoprendo somiglianze e percorsi affini veramente incredibili, una lingua comune come se ci conoscessimo da sempre, l’indomani mi telefonerà in albergo per invitarmi all’università, ma ero già uscita, peccato! spero diventeremo amiche. Passiamo il sabato visitando bene le stradine di Georgetown,
il quartiere “in” di Washington e la collezione Phillips e facendo una crociera in barca sul fiume Potomac
fino ad Alexandria, piccola cittadina molto turistica sulle rive del fiume dove è nato il presidente George Washington.
L’America non è l’Europa, non ci sono vestigi archeologiche che testimonino di cinquemila anni di storia, c’è la wilderness, la grandiosità della natura nei suoi parchi e nei paesaggi mozzafiato che purtroppo ho visto solo nei westeroni in televisione, dei musei che raccontano la vita dei primi pionieri europei attraverso ambienti, mobili, utensili come ad Alexandria e ci sono i presidenti, tanti, e la cui vita viene sempre documentata nei minimi dettagli, ogni paese valorizza quello che ha.
Ceniamo niente male in un ristorante scelto da me perché si chiama Nathan’s, come il mio cognome, pare sia una catena e tornando verso l’albergo, vicino al Columbus Circle vedo uno splendido palazzo tutto decorato, è la sede centrale di Scientology,
setta che non so come definire e che in Italia abbiamo fortunatamente proibito, ma che in America ha grande potere e visibilità. Dei cartelli davanti all’edificio invitano ad entrare, offrono consultazioni, consigli e una nuova visione della vita con felicità compresa, per amor del cielo, preferisco rimanere ignorante ed infelice e tiro dritto. L’ultimo giorno a Washington è dedicato nuovamente alla visita ai musei, ce ne sono talmente tanti, e all’incontro con Gaia,
brillante figlia della mia amica Miretta che dopo la laurea in scienze politiche a Milano, sta facendo un master alla Georgetownuniversity, quanto di meglio pare per chi vuole cimentarsi nelle relazioni internazionali. Gaia è molto soddisfatta dei suoi studi e delle opportunità della città, mi racconta però che è tra le più violente e pericolose d’America e bisogna stare attenti, ogni settimana l’università invia per e-mail informazione ai suoi studenti sulle aggressioni avvenute, sulle dinamiche degli incidenti, sulle precauzioni da prendere, sui luoghi da non frequentare, sui comportamenti a rischio. Insieme visitiamo i pletorici musei, quello dello spazio, quello africano, quello asiatico, il giardino delle sculture,
è un’occasione anche per lei perché il grande impegno dello studio non le ha permesso finora di fare la turista. Quello che mi colpisce visitando queste favolose caverne di Alì Babà e tutti i musei americani in generale, è che non vengono menzionate quasi mai istituzioni o collettività, ma sempre l’individuo, grande protagonista. Si, cartelli alle varie entrate rinviano sempre alla generosità di individui che hanno donato questo o quello, capacità e intraprendenza del singolo, mai il tutti insieme. Giustissimo valorizzare l’uomo ed il suo operato, ma in qualche modo mi disturba questo individualismo sfrenato che sembra non tener conto di una società nel suo insieme, non sottolineare il valore di un obbiettivo comune, di uno sforzo collettivo. Solo nel business e nella politica si sente il peso di trust e lobbyes, ma questa è un’altra storia.