Lunedì mattina siamo in partenza per New York sul mitico Grayhound: ricordo da giovane le bellissime trasmissioni alla televisione di Piero Mazzarella che su questa linea di autobus ci aveva fatto sognare e attraversare l’America viaggiando coast to coast. New York è New York, come riassumere meglio la vitalità, il fermento della grande mela. Appena arrivati alla stazione
ci si sente investire in pieno dal pulsare di questa metropoli che corre a mille all’ora a tutte le ore del giorno e della notte, ma che consente pure pause di assoluto estraneamento.
Vecchio albergo molto malconcio e scalcagnato, ma centralissimo, a midtown, di fronte al Madison Square Garden, dove da bambina con papà guardavo alla tele i terribili incontri mondiali di box e dalla finestra della nostra camera da letto al quindicesimo piano la vista solitaria e maestosa dell’Empire State Building,
chi se ne frega dei muri scrostati con una vista mozzafiato così. Di questa metropoli meravigliosa e terribile
non racconterò quello che già tutti sanno o hanno visto, mi limiterò a soggettive annotazioni.
Prima di tutto la sfiga di aver visitato il Guggenheim, costruzione-capolavoro di Wright, senza vedere la collezione permanente perché il museo era in lavori di restauro, seconda sfiga di non aver visto tutti gli Eduard Hopper che adoro al Whitney perché il museo interamente dedicato all’arte americana apriva proprio quella mattina alla biennale dell’arte contemporanea per la gioia di Camille; video e foto sulla tortura, sul ciclone Katerina a New Orleans, installazioni concettuali per me misteriose e temi sociali sembrano essere le preoccupazioni creative degli artisti attuali. Interessantissimo a Chelsea l’Art Gallery District,
nella ventunesima e ventiduesima strada a cavallo con la decima; sulle opere ho già espresso le mie difficoltà, ma gli spazi, uno dopo l’altro in fila indiana, immensi loft bianchi dove qualunque installazione è possibile, sono veramente incredibili.
Lelong, Yvon Lambert, Sonnabend, Wildenstein, D’Amelio, i nomi mitici dei galleristi d’America e d’oltreoceano sono tutti concentrati lì ed offrono le loro scorribande artistiche contemporanee.
Alla sera, dulcis in fondo della nostra giornata dedicata all’arte ceniamo al Greenwich Village da Florent, ristorante supertrandy del figlio dello scultore francese Morellet. Il luogo a prima vista sembra molto disadorno ed anonimo, ma è l’originalità dei commensali a stabilirne tono e prestigio. Un pomeriggio inoltrato sono sulla V strada in autobus: sto andando verso Harlem alla Columbia University
per visitare il mio amatissimo nipote Marco
che sta facendo lì un dottorato di filosofia e la sua prestigiosa università; alla fermata, una ragazza in carrozzella aspetta. Il conducente si ferma, fa più manovre di parcheggio e finalmente riesce a regolare il predellino dell’autobus all’altezza della carrozzella, la ragazza sale; saranno passati grossomodo venti minuti, nessuno si è spazientito, nessuno si è meravigliato, nessuno ha guardato, tranne Camille e me, situazione assolutamente normale. Altro flash: sono in un grande negozio che si chiama Old Navy, mi trovo alla cassa con due golfini in mano giusto per godere anch’io del famigerato shopping. Giornata speciale di sconti, pagando mi regalano un buono da 10 dollari per un prossimo acquisto; partirò l’indomani, per me non è sfruttabile. Osservo la coda e scelgo una signora asiatica con bambino in braccio dalla faccia simpatica. Col mio improbabile inglese dico: – signora, domani parto, posso darle questo buono da 10 dollari? Mi guarda con aria superdiffidente- a quanto me lo vende? – niente, glielo regalo-. La signora lo prende senza neanche dire grazie, è troppo scioccata dall’incontro con il marziano. Informo gli interessati che l’ultima moda della signora bene nuovayorchese è portare il tailleur con le infradito ai piedi, constato che ci sono sempre molti obesi per le strade e nei ristoranti vedo sempre la gente che con gli avanzi delle pantagrueliche porzioni si fa preparare il doggy-bag, eufemistico modo molto pratico per avere il pranzo pronto l’indomani, consiglio di vedere il più meraviglioso negozio di passameneria al mondo, ci sono persino i bottoni a stella di Davide con gli strass
comunico infine le recentissime, s’intende per me, novità:
- portarsi il vino al ristorante (l’abbiamo fatto a Philadelphia con Titina in un ristorante cinese che non aveva l’autorizzazione per gli alcolici)
- i semafori che scandiscono i secondi per i pedoni (visto a Washington)
- gli occhiali speciali per non piangere mentre si taglia la cipolla ( visto in un negozio)
- gli involtini primavera cinesi serviti con senape e salsa rubra (mangiati al ristorante)
- i calabroni giganti ( college Swarthmore)
- un ponte a due piani ( visto dalla circle-line facendo in mare il giro di Manhattan)
- le unghie finte più lunghe del mondo ( vetrina di manicure a New York)
- folle immense per le strade, ma nessuno guarda nessuno, come se ognuno vivesse in una bolla di vetro
- circolare senza complessi per le strade centinaia di invalidi, autonomi portatori del loro handycap.
Fine percorso, tre città americane totalmente diverse, tutte e tre belle ed interessanti: Philadelphia ricca metropoli di provincia, austera e tranquilla, business, arte e cultura, Washington, città del sud stupendamente restaurata e valorizzata, il centro del potere politico, la fierezza americana, gli homeless e i delinquenti che però sono tanti, New York, grande, grande, grande e non solo in senso geografico o di tutto di più, ma torno contenta nella mia Europa.