Sono contenta, anche qui ci sono degli imbecilli assoluti. Per esempio Amna (così si chiama) dovrebbe fare la pulizia due volte alla settimana ed il buon senso suggerirebbe ogni 3-4 giorni, ma nossignore, l'operazione avviene il martedì ed il giovedì mattina, vani i miei tentativi di comunicazione in lingua indecifrabile per spostare più razionalmente i turni, l'imbecille ha le sue certezze. Normale pure indicare per strada una direzione che si ignora totalmente, invece di dire "non lo so", frequente, mi si racconta, l'arroganza di chi siede dietro la scrivania in un ufficio governativo e si sente un padreterno. Se approfondisco un pò il pensiero mi rendo conto che sostenere che gli ebrei sono intelligenti e magari pure ricchi, luoghi comuni non inusuali, lungi dal rappresentare un complimento (e difatti se ne sono viste delle belle) è in realtà un modo per catalogare "l'altro", farlo diventare un diverso, e il diverso, si sa, non piace. Decisamente mi sento rassicurata, anche qui ci sono clochards e poveri, gente che fa tanta fatica, mille contraddizioni, i bipedi sono uguali a tutte le latitudini, evviva gli imbecilli.
Questa osservazione non riguarda i giovani che parlano fra loro solo in ebraico, ma le persone della mia generazione ed oltre. Sono sola, dunque mi tocca star zitta e ascolto tanto. Che sia al caffè, in spiaggia o su un autobus non c'è una conversazione che finisca con la lingua con la quale è iniziata. Ebraico+ lingua d'origine+ qualche parolina o espressione qua e là del paese in cui magari si vive che non è necessariamente quello dove si è nati. Ne risulta una comunicazione molto colorita e un pò paranoica, proprio come le mie conversazioni col cugino Eldad.
Ho fatto indigestione di Hayim Nahman Bialik, ma ne valeva la pena, viene considerato il più grande poeta nazionale ed io non ne sapevo niente. Prima di tutto rehov Bialik, una stradina piccola, tutta alberata con stupendi edifici Bauhaus, depositaria in qualche modo della storia della città. In questa via ci sono infatti la casa-atelier-museo del famoso pittore Reuven Rubin (rumeno israeliano; i suoi quadri hanno il sapore di Chagall, il fauve-naif del Doganiere Rousseau ed i colori accesi di questa terra. Mi è piaciuta molto una sua frase:" sono un autodidatta, non ho imparato a dipingere, ma a colorare i miei sogni" ), la dimora appena restaurata del poeta e il vecchio municipio di Tel Aviv ora divenuto fondazione culturale. Nato in Russia, vissuto ad Odessa e Berlino, Bialik approda in Palestina solo nel 1924, a 51 anni, ma, e qui sta la sua particolarità, anche in diaspora ha sempre scritto e composto in ebraico, il primo scrittore a farlo. Viene dunque percepito come un lieder spirituale della sua generazione, colui che ha tolto la polvere all'antico ebraico biblico dando nuovo impulso alla lingua, un pilastro insomma della cultura ebraica moderna. Poichè non di sola arte vive l'uomo, era un formidabile goloso, e di lui ho letto le parole di Chagall, suo grande amico: " Ho visto raramente qualcuno divorare il cibo come Bialik. Cucchiaio, forchetta e coltello ruotano nelle sue mani come in trance". La sua casa, stupenda, tutta decorata ed arredata in puro art-déco ha rappresentato per anni un luogo di incontro privilegiato per l'intellighentzia locale.
Questa osservazione non riguarda i giovani che parlano fra loro solo in ebraico, ma le persone della mia generazione ed oltre. Sono sola, dunque mi tocca star zitta e ascolto tanto. Che sia al caffè, in spiaggia o su un autobus non c'è una conversazione che finisca con la lingua con la quale è iniziata. Ebraico+ lingua d'origine+ qualche parolina o espressione qua e là del paese in cui magari si vive che non è necessariamente quello dove si è nati. Ne risulta una comunicazione molto colorita e un pò paranoica, proprio come le mie conversazioni col cugino Eldad.
Ho fatto indigestione di Hayim Nahman Bialik, ma ne valeva la pena, viene considerato il più grande poeta nazionale ed io non ne sapevo niente. Prima di tutto rehov Bialik, una stradina piccola, tutta alberata con stupendi edifici Bauhaus, depositaria in qualche modo della storia della città. In questa via ci sono infatti la casa-atelier-museo del famoso pittore Reuven Rubin (rumeno israeliano; i suoi quadri hanno il sapore di Chagall, il fauve-naif del Doganiere Rousseau ed i colori accesi di questa terra. Mi è piaciuta molto una sua frase:" sono un autodidatta, non ho imparato a dipingere, ma a colorare i miei sogni" ), la dimora appena restaurata del poeta e il vecchio municipio di Tel Aviv ora divenuto fondazione culturale. Nato in Russia, vissuto ad Odessa e Berlino, Bialik approda in Palestina solo nel 1924, a 51 anni, ma, e qui sta la sua particolarità, anche in diaspora ha sempre scritto e composto in ebraico, il primo scrittore a farlo. Viene dunque percepito come un lieder spirituale della sua generazione, colui che ha tolto la polvere all'antico ebraico biblico dando nuovo impulso alla lingua, un pilastro insomma della cultura ebraica moderna. Poichè non di sola arte vive l'uomo, era un formidabile goloso, e di lui ho letto le parole di Chagall, suo grande amico: " Ho visto raramente qualcuno divorare il cibo come Bialik. Cucchiaio, forchetta e coltello ruotano nelle sue mani come in trance". La sua casa, stupenda, tutta decorata ed arredata in puro art-déco ha rappresentato per anni un luogo di incontro privilegiato per l'intellighentzia locale.
sometimes the heart longs for the years
of peace and quiet that where before
when the world slept in silence and man
dozed, sated with peace, soft and asnore.
Pausa, naturalmente al rinomato caffè Bialik, all'angolo della strada, con un'insalata greca, pane arabo e spremuta di limone alle 3 de pomeriggio per digerire tutta stà cultura e poi chiudo il cerchio al vecchio cimitero in via Trumpeldor, poco distante, il Père Lachaise locale, dove è sepolto con altri grandi.
Alla Galleria ShenArt ho conosciuto l'artista Stéphane Zerbib (algerino, vissuto in Danimarca, da pochi anni approdato in Israele) e la sua compagna scultrice di Bruxelles. Ero entrata perchè dalla vetrina mi avevano colpito i suoi quadri e ci sono rimasta due ore e mezza. Si è parlato di un sacco di cose in francese, esperienze di vita, la tecnica del suo lavoro, la difficoltà per i troppi artisti locali di sbarcare il lunario senza nessun aiuto statale, l'imprescindibile sostegno economico degli ebrei americani, il coraggio e la follia di rivoluzionare la propria vita, sogni ed illusioni prima dell'arrivo e le difficoltà della realtà al quotidiano. Incontro fecondo, bello il confronto quando si parla lo stesso alfabeto.
Su suggerimento della Lonley Planet visito Beth Hatefutsoth, il museo della Diaspora, che si trova in uno dei migliori campus universitari di Israele a Ramat Aviv, la periferia bene di Tel Aviv. Il museo, a parte maquette di sinagoghe soprattutto antiche di tutto il mondo ( anche una bellissima moderna a New Port, Elkins Park in Pennsylvania disegnata nel 1959 da Frank Lloyd Wright) ha un impianto didattico con pannelli, grafici, filmati, testimonianze di vita e di costumi delle varie comunità nel mondo. Scopro per esempio che dallo Yemen con l'operazione "Magic Carpet" sono approdati qui negli anni 50 in 48.000, che Kai Feng Fu è stata l'unica comunità ebraico-cinese, disintegratasi nel XVIII secolo, da una fedele ricostruzione, com'era fatta la stanza di studio di Rashi di Troyes (forse il più grande commentatore dei testi sacri) a Worms dove aveva soggiornato in gioventù. C'è anche copia dell'editto di espulsione del 1492, pietra miliare per la dispersione sefardita nel bacino mediterraneo e Torquemada, l'inquisitore più terribile ed ottuso che non ne ha azzeccata una, oltre ad interrompere drammaticamente secoli di pacifica e prolifica convivenza ed integrazione culturale nella Sepharad felix ( la Spagna di allora), ha anche sostenuto che gli indios delle Americhe non avevano un'anima; che andasse in cerca della sua piuttosto). Dalla visita al museo, ho ricavato l'impressione che c'è sempre molto forte la spinta a creare un orgoglio nazionale di appartenenza, nonostante e grazie alle differenze e specificità delle singole comunità. Bellissimo il campus, tanti istituti di varie facoltà dalle svariate architetture, giardini con sculture, luogo di studio molto ambito dai giovani delle future élite.
Tutte le mattine Avi mi insegna qualche parola di ebraico e mi fa una spremuta fresca di limoni e pompelmi rosa. Ha un minuscolo chiosco a pochi metri da casa. Certe piccole abitudini sono il sale della vita e con la vitamina B sono a posto per la giornata.Su suggerimento della Lonley Planet visito Beth Hatefutsoth, il museo della Diaspora, che si trova in uno dei migliori campus universitari di Israele a Ramat Aviv, la periferia bene di Tel Aviv. Il museo, a parte maquette di sinagoghe soprattutto antiche di tutto il mondo ( anche una bellissima moderna a New Port, Elkins Park in Pennsylvania disegnata nel 1959 da Frank Lloyd Wright) ha un impianto didattico con pannelli, grafici, filmati, testimonianze di vita e di costumi delle varie comunità nel mondo. Scopro per esempio che dallo Yemen con l'operazione "Magic Carpet" sono approdati qui negli anni 50 in 48.000, che Kai Feng Fu è stata l'unica comunità ebraico-cinese, disintegratasi nel XVIII secolo, da una fedele ricostruzione, com'era fatta la stanza di studio di Rashi di Troyes (forse il più grande commentatore dei testi sacri) a Worms dove aveva soggiornato in gioventù. C'è anche copia dell'editto di espulsione del 1492, pietra miliare per la dispersione sefardita nel bacino mediterraneo e Torquemada, l'inquisitore più terribile ed ottuso che non ne ha azzeccata una, oltre ad interrompere drammaticamente secoli di pacifica e prolifica convivenza ed integrazione culturale nella Sepharad felix ( la Spagna di allora), ha anche sostenuto che gli indios delle Americhe non avevano un'anima; che andasse in cerca della sua piuttosto). Dalla visita al museo, ho ricavato l'impressione che c'è sempre molto forte la spinta a creare un orgoglio nazionale di appartenenza, nonostante e grazie alle differenze e specificità delle singole comunità. Bellissimo il campus, tanti istituti di varie facoltà dalle svariate architetture, giardini con sculture, luogo di studio molto ambito dai giovani delle future élite.
I cugini mi portano un giorno fuori Tel Aviv, a vedere il lungomare di Bat Yam e Ashdod, due cittadine verso sud. A Bat Yam densità abitativa fittissima, tanti alberi e verde, le varie altezze delle costruzioni testimoniano del tempo che passa, basso prima, alto ora, i miei genitori non riconoscerebbero. Ashdod praticamente 30 anni fa non esisteva, adesso è con Haifa porto di grande traffico. Palazzoni della stessa pietra rosa di Gerusalemme, interi quartieri nuovi di pacca spuntati come funghi, l'impressione che tutto sia un immenso cantiere in trasformazione eppure....... proprio davanti ai mega building c'è la sabbia, qualche cespuglietto striminzito, delle dune di deserto.
Domattina arrivano i miei "gioielli". Ho preparato il cuore, sul tavolo uva, dolci col papavero e frutta secca in segno di benvenuto. Inizia una nuova avventura.