Mingala ba = buongiorno, kjezu bé= grazie, tatà= ciao. Sono le uniche tre parole che ho memorizzato. Le ho ripetute non so quante volte al giorno, accompagnate da un sorriso e un inchino a mani giunte. Sono proprio pochine, me ne rendo conto, eppure hanno funzionato, sufficienti per stabilire un contatto, per scambiarsi un segno di saluto solidale, per guardarsi negli occhi e far passare una corrente empatica, sarà che oltre alle parole contano anche modo e tono, sarà che da queste parti hanno stupendamente il sorriso facile e l'accoglienza in mano. I birmani hanno vissuto in grande isolamento e vivono tuttora senza libertà, anche all'interno del paese permessi solo alcuni scambi e non dovunque. Questa chiusura ha negato la libera circolazione delle idee e non solo di quelle, il tormentato ma imprescindibile cammino che richiede la conquista di una democrazia, ma in circostanze certamente drammatiche, ha anche preservato la loro identità, il loro modo di vivere, uno sguardo curioso, ingenuo e disinteressato verso "l'altro", il "diverso" che arriva da paesi lontani. A questa arrendevole mitezza non è forse estraneo lo zampino del buddhismo che insegna l'accettazione e non la rivolta, un percorso di salvezza e di crescita individuale più che collettivo e sociale; il venerabile Maestro ha proposto al singolo uomo una rivoluzione interiore, non il sovvertimento dell'ordine costituito ( ha però insegnato agli umili e infranto le fondamenta del potere dei brahmani induisti ordinando monaco un barbiere, che apparteneva a una casta inferiore). Lui è divenuto un Buddha, un Illuminato, ma l'uomo Gautama Siddharta ha sì abbandonato palazzo, lusso ed agi per divenire asceta errante, ma per dire il vero anche la famiglia, i genitori, la moglie, il giovane figlio Rahula, che in quel palazzo con lui vivevano. Se l'esempio può essere un valore fondante per la formazione di un'identità collettiva ed individuale dei birmani, per il nutrimento spirituale provvede comunque il Buddha con gli episodi della sua storia dipinti e narrati in ogni dove e per la vita "civile" Aung San Suu Kyi, "la Signora", come viene chiamata da queste parti. Premio Nobel per la Pace, non sorprende che sia diventata il simbolo della resistenza birmana alla dittatura militare. Il genitore Bogyoke Aung San è stato il padre del movimento per l'indipendenza del Myanmar, un eroe ed il suo martire più famoso, colui che sosteneva che "la democrazia è l'unica ideologia compatibile con la libertà" , colui che aveva sognato e lavorato per un paese in cui tutte le diverse etnie fossero rispettate e partecipassero al futuro governo del paese finalmente indipendente. Bogyoke Aung San è stato assassinato nel luglio del 1947, pochi mesi prima dell'indipendenza birmana del 4 gennaio 1948, andando drammaticamente ad ingrossare le fila di altri illustri morti assassinati, lungimiranti e scomodi propugnatori di pace.
In 4 settimane abbiamo girato e visto tanto, impossibile raccontare tutto. Per esempio non ho parlato di Yangon, la capitale, estesa, lussureggiante di natura, affascinante con palazzi imponenti e restaurati ed altri sgarrupati, gli stessi contrasti di altre città dal passato coloniale e penso per esempio alla Havana, a Cochin, ad Antigua in Guatemala. La nostra prima camera d'albergo è stata nientepopodimeno che la 007, un buon auspicio seguito da grande delusione perché era vuota, dentro nè Sean Connery nè Roger Moore, peccato!, con Gastone avremmo gradito, ma entrambi gli agenti erano in missione speciale.
Io che a Milano in sinagoga non ci vado quasi mai, quando sono in giro per il mondo cerco sempre, chissà perché, dove sta la mia tribù (gli ebrei qui li chiamano Shinlung). A Yangon in una stretta via tra negozi di abbigliamento indiani e commercianti islamici la sorpresa di questa imponente sinagoga, costruzione ottocentesca con tanto di colonne e matroneo. Certi erano emigrati qui nel '700 provenienti dall'Iraq, dall'Iran, dall'India, poi altri durante il periodo coloniale britannico. Erano arrivati ad essere una comunità di 2500 persone, sono poi fuggiti durante l'invasione giapponese nella seconda guerra mondiale e all'arrivo della giunta militare nel '62. Adesso sono rimasti in 25, per mancanza di fondi fanno fatica a mantenere il tempio e sperano nel turismo e nelle donazioni degli israeliani di passaggio bruscamente interrottesi dopo le sanzioni americane sul paese. Pare urga restauro per l'antico cimitero ebraico lasciato all'abbandono che non siamo riuscite a visitare.
Vorrei parlare anche di chinlon, una specie di calcio nazionale che abbiamo visto giocare in ogni angolo, in ogni strada del paese. 6 giocatori disposti a cerchio che devono cercare di tenere in aria e scambiarsi una piccola leggerissima palla di canna d'India intrecciata usando solo delle parti ben definite del piede o della gamba. Si perde quando si usa una parte sbagliata del corpo o la palla cade per terra.
Vorrei soprattutto parlare dei mercati, una mia grande passione, e di due in particolare, quello di Tikyt vicino a Laikaw e quello di Inn Dein dal nome dell'omonimo villaggio sul fiume nella parte terminale del lago Inle.
Non mi vergogno di raccontare che a Tikyt avevo le lacrime agli occhi per la commozione, troppo bello, mi sono veramente sentita una fortunata proiettata su un altro pianeta, coloratissimo, autentico, incontaminato, sereno.Le donne dell'etnia pao con i loro copricapo rossi in testa, tutti, proprio tutti, in costume tradizionale, il longyi, un semplice rettangolo di stoffa legato intorno alla vita, un giro in più o in meno di tessuto a seconda della taglia. La sua praticità, l'isolamento del paese e la diffusa povertà ne hanno decretato il successo, non viene indossato solo dai militari e da qualche abitante di città. E' un capo magicamente polifunzionale, anche qui il bisogno aguzza l'ingegno, in crociera una sera ce ne hanno dato dimostrazione: può diventare coperta, tovaglia, tracolla per portare oggetti, culla per bambini, cinghia di sicurezza per salire sulle palme da cocco, costume da bagno,asciugamano, copricapo, lungo o corto, dipende semplicemente da come lo pieghi e dall'uso che abbisogna. Mio figlio Francesco, minimalista com'è, ne sarebbe entusiasta, ma a Parigi non so se è indicato.Sorprendente anche l'altro mercato, ma per una differente ragione, aveva il casinò. Già, il casinò. In fondo in fondo nascosto dietro miriadi di bancarelle una folla di persone in piedi o ammassata per terra a grappoli a guardare e puntare davanti ai due giochi: Gon Game, tre grossi dadi rudimentali invece della roulette con su tartaruga, gambero, pesce, tigre, elefante e pavone e Le Kong, una specie di trottola dado multicolore. Purtroppo non ho potuto fotografare, come in tutte le sale da gioco del mondo che si rispettino, anche in questa straordinaria bisca campagnola sotto un cielo assolato era strettamente proibito.
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