Credo dovrei smettere di leggere i giornali, mi sento sommersa da notizie allarmanti, probabilmente giustificate e veritiere ma altrettanto nocive per l'equilibrio giornaliero. Lo so che la tecnica dello struzzo non è delle migliori, ma ognuno si barcamena come può. Incombe soprattutto l'impressione di un immenso naufragio del pianeta terra e noi incauti mortali che sguazziamo nel mezzo. Surriscaldamento della crosta, sconvolgimenti climatici, minacce nucleari, riduzione delle riserve planetarie, alla soglia di 7 miliardi di anime cui pensare, aiuto! Col naufragio generale poi va regolarmente a braccetto il pericolo di estinzione, acque che si prosciugano, inondazioni che fanno sparire l'abitato, intere specie che se ne vanno o rischiano di, etnie, riti, tradizioni, animali, fiori, semi, un immenso cimitero. Anche la lingua è un fenomeno in continua evoluzione, ma ha le sue difficoltà, nascono giornalmente nuove parole, ma tante ne muoiono o semplicemente si coprono di polvere come le cose che non vengono più usate. Leggo su La Republica di mercoledì 14 settembre un articolo di Stefania Parmeggiani, a titolo "Parole", ci informa che su internet aumentano i custodi dei vocaboli in via di estinzione. Invece che adozioni a distanza di bambini in difficoltà, su Facebook si è costituito il gruppo "Adotta una parola", un invito a scrivere e a usare nelle conversazioni vocaboli finiti del dimenticatoio, una spruzzata di ossigeno per termini asfittici, relegati negli angoli della memoria. Altre iniziative online sono "il dizionario delle parole perdute" o il virtuale "ufficio resurrezione parole smarrite", anche nel campo della lingua si muovono insomma schiere di volontari, generosi distributori di "pillole lessicali", "un contributo alla salvaguardia di una lingua sempre più povera, ridotta nel suo utilizzo di base, a meno di 7000 termini". Vorrei fare la mia parte anch'io, proverò a dire "callido" invece di astuto, "edule" per commestibile, non certo foneticamente bello, ma da memorizzare "salapuzio", uomo piccolo di statura e con grande considerazione di sé, utilissimo di questi tempi, mi sono invece stupita di scoprire che anche "strapuntino" naviga in acque difficili, ma come? a teatro in treno e sugli autobus non si usano più? Vorrei portare infine all'attenzione il caso di parole che apparentemente godono di ottima salute, come "dignitoso" o "esemplare", aggettivi frequenti, sono in molti a masticarli, ma solo con la bocca, vuoto esercizio formale, pochi ne praticano un uso sostanziale, i nostri politici in testa.
venerdì 23 settembre 2011
martedì 20 settembre 2011
un posticino per sognare
Quel mio figliolo ecologista, terzomondista, idealista, saccopelista due giorni fa ha lasciato la sua amata Parigi e se n'è andato a vivere in Gabon, a Libreville, ha un contratto di lavoro per due anni, ma rinnovabili, forse diventeranno quattro, si vedrà. Va ad insegnare a giovani più giovani di lui la matematica, calcoli astrusi, radici quadrate, tante x e y, nel frattempo mi ha mandato una foto dell'università, un poco malandata per la verità, un serpente morto su un campo lungo i viali, cominciamo bene. Lui è fatto così, dopo tre o quattro anni fisso in un posto deve partire, buttarsi in nuove esperienze, visitare posti, conoscere gente diversa, misurarsi col cambiamento. A parte gli anni sabbatici in giro per il mondo e la sua Parigi del cuore, ci sono stati i soggiorni in Honduras e Madrid. Adesso è la volta del Gabon, grande quasi come l'Italia con un milione e mezzo di popolazione in tutto. Dell'Africa conosco solo il nord, Egitto, Tunisia e Marocco, ma qui si tratta dell' Africa sub-sahariana, all'altezza dell'equatore. Non si è mai detto Europa bianca, Asia gialla o America rossa, perché mai allora chiamarla Africa nera che già il solo scriverlo mi fa un certo effetto? La dicitura "Africa nera", non so perché, suscita in me una certa inquietudine, sarà per il colore nero in aperto contrasto con la luminosità straordinaria dei luoghi, che invece immagino, forse è la paura di ciò che non conosco, un paese che mi risulta lontano e misterioso solo letto e mai visitato, forse tutte quelle vaccinazioni che vengono richieste. Prima di partire, mago del computer com'è, si è creato in un battibaleno un blog per raccontare e raccontarsi, naturalmente lo divorerò. Già il primo post di viaggio mi ha commosso, racconta che all'aeroporto Charles de Gaulle l'altoparlante del terminal comunica che in quel momento ci sono 500.000 persone in volo nei cieli del mondo e lui si chiede: " Où nous installerons-nous pour rêver maintenant que même les nuages sont surpeuplés?" dove potremo metterci a sognare adesso che persino le nuvole sono sovraffollate? Non so bene dove, Francesco, cercheremo insieme, forse rimangono le stelle, ma un posticino per sognare è indispensabile, bisogna trovarlo sempre, non è vero?
venerdì 16 settembre 2011
il Muro
Me l'ha mandata tempo fa un amico, ma è troppo carina. Voglia di condividere.
Une jeune journaliste de CNN avait entendu parler d'un très, très
vieux juif qui se rendait deux fois par jour prier au mur des
lamentations, depuis toujours.
Pensant tenir un sujet, elle se rend sur place et voit un très vieil
homme marchant lentement vers le mur.
Après trois quarts d'heure de prière et alors qu'il s'éloigne lentement, appuyé sur sa canne, elle s'approche pour l'interviewer.
"Excusez-moi, monsieur, je suis Rebecca Smith de CNN. Quel est votre nom ?" "Moshe Rosenberg" répond-t-il.
"Depuis combien de temps venez-vous prier ici ?"
"Plus de 60 ans" répond-t-il.
"60 ans ! C'est incroyable ! Et pour quoi priez-vous ?"
"Je prie pour la paix entre les Chrétiens, les Juifs et les Musulmans.
Je prie pour la fin de toutes les guerres et de la haine. Je prie pour
que nos enfants grandissent en sécurité et deviennent des adultes
responsables, qui aiment leur prochain.."
"Et que ressentez-vous après 60 ans de prières ?"
"... J'ai l'impression de parler à un mur."
Une jeune journaliste de CNN avait entendu parler d'un très, très
vieux juif qui se rendait deux fois par jour prier au mur des
lamentations, depuis toujours.
Pensant tenir un sujet, elle se rend sur place et voit un très vieil
homme marchant lentement vers le mur.
Après trois quarts d'heure de prière et alors qu'il s'éloigne lentement, appuyé sur sa canne, elle s'approche pour l'interviewer.
"Excusez-moi, monsieur, je suis Rebecca Smith de CNN. Quel est votre nom ?" "Moshe Rosenberg" répond-t-il.
"Depuis combien de temps venez-vous prier ici ?"
"Plus de 60 ans" répond-t-il.
"60 ans ! C'est incroyable ! Et pour quoi priez-vous ?"
"Je prie pour la paix entre les Chrétiens, les Juifs et les Musulmans.
Je prie pour la fin de toutes les guerres et de la haine. Je prie pour
que nos enfants grandissent en sécurité et deviennent des adultes
responsables, qui aiment leur prochain.."
"Et que ressentez-vous après 60 ans de prières ?"
"... J'ai l'impression de parler à un mur."
martedì 13 settembre 2011
Q.I. e Q.E.
Sulla scia delle riflessioni sulle emozioni suscitate dai luoghi, mi sono ricordata di aver scoperto in anni recenti che oltre al Q.I c'è per fortuna anche il Q.E. Non amo le tabelle i grafici gli schemi le statistiche, anche se so che servono, imprescindibili per gli studi di settore e per avere una panoramica più ampia, di quozienti poi non ne parliamo, già il suono stesso della parola la fa sentire pretenziosa e ostile. Per fortuna il quoziente di intelligenza non me l'hanno mai misurato, me la cavo a stento con le tabelline e ricordo ancora con terrore i problemi di quarta elementare sui tempi di riempimento della vasca da bagno, allora in funzione un solo rubinetto, adesso che c'è pure l'idromassaggio Jacuzzi con tutti quegli spruzzi, li immagino ancora più difficili. Non so se i supermercati fanno i test di Q.I. prima di assumere il loro personale, ma è certo che il Ministero della Pubblica Istruzione ha una fiducia cieca e illimitata nella dotazione intellettiva del suo esercito di formatori, vecchi e nuovi prof. ne siamo tutti esentati, evviva! Per quanto concerne il Q.E. sono andata a cercare e al sito
http://www.psicolab.net/2008/quoziente-emotivo-qe-e-qi/ ho trovato quanto segue:Emozione e intelligenza
Lo psicologo americano Daniel Goleman (1996) ha descritto l´intelligenza emotiva, cioè la carta vincente per il benessere e il successo nella vita privata e nel lavoro. Si sono rapidamente moltiplicate vere e proprie mappe mentali e questionari per capire quanto si è dotati di “competenza emotiva” e di sensibilità, sia nella vita privata sia nel mondo del lavoro. Managers, imprenditori, formatori di personale hanno rapidamente fatto proprio questo nuovo parametro di valutazione. Diversi reclutatori oggigiorno, tengono conto tanto del Q.E. quanto del Q.I., consapevoli che l´emotività si rivela essere un asso nella manica nella vita professionale. Coloro che hanno una naturale predisposizione all´intuizione ora possono avere la meglio sui tipi essenzialmente razionali. Per avere successo, non serve solamente avere ottenuto un sacco di titoli di studio, ma bisogna anche essere in grado di saper usare le proprie emozioni per capire meglio gli altri, per avere una più costante forza di volontà e per meglio conoscere se stessi. Le donne sono più intuitive degli uomini. Sono più inclini a captare gli umori passeggeri, in particolare osservando le espressioni del viso. D´altra parte le donne hanno più capacità empatiche degli uomini e sono in grado si percepire meglio i sentimenti altrui. Gli uomini provano le stesse emozioni ma, per una questione di educazione, hanno più difficoltà ad esternarle, soprattutto sul lavoro. Il riconoscimento ufficiale del quoziente emotivo ha avuto come conseguenza la rivalorizzazione dell´intelligenza del Cuore. “Usare” il Cuore per capire gli altri permette di sdrammatizzare certe situazioni e, soprattutto, permette di accettare il prossimo, difetti compresi. Come conciliare cognizione e sentimenti? Come conquistare, insomma, la competenza emotiva? Claude Steiner, (1999) psicologo clinico, nel volume L´alfabeto delle emozioni, afferma di aver coniato lui stesso il termine “competenza emotiva” vent´anni fa. Da allora lavora a un programma per insegnare alle persone “ad aprire il Cuore, a esplorare il panorama emotivo, a saper dare e ricevere carezze”. I passi fondamentali per conquistare questa abilità, in breve, sono cinque:
- saper riconoscere le proprie emozioni e i loro effetti;
- dominare i propri stati d´animo e saperli utilizzare al momento giusto;
- avere la spinta alla realizzazione di sè;
- osservare gli altri con comprensione ed empatia;
- apprendere la capacità di comunicare.
Se per un adulto imparare la “lezione del Cuore” è importante, per i bambini la competenza emotiva è fondamentale per sfruttare al meglio ogni talento di cui la genetica li ha dotati. Ma come si spiega questo improvviso entusiasmo verso i valori del Cuore, verso una ricomposizione tra ragione e sentimento? Certamente tanto interesse ai temi dell´interiorità non è estraneo ai valori della New Age, da cui lo stesso Goleman sembra affascinato. In parte, si tratta anche di una reazione alla rivoluzione cognitivista degli anni Cinquanta, che ha congelato le emozioni riducendo tutto alla razionalità. Però, a ben vedere, questa tensione verso la consapevolezza di sé che ora si chiama intelligenza emotiva appartiene a tradizioni occidentali antichissime. I classici latini la chiamavano compostezza, equilibrio, magnanimità e definivano le emozioni “motus animae”, i moti dell´anima. Lo stesso Albert Einstein non trascurava il valore delle emozioni: “Noi viviamo in una sorta di prigione che ci separa dagli altri” scriveva. “Il nostro compito deve essere quello di allargare il raggio nella nostra empatia, fino ad abbracciare tutte le creature viventi”.
Niente stress, niente numeri, equazioni, figure geometriche, calcoli astrusi, trabocchetti mentali e lancette dell'orologio che girano inclementi cronometrando lentezze ed incertezze. Per valutare il Q.E. pare chiedano per esempio come reagisci alla tristezza, come ti comporti al matrimonio della tua migliore amica, cosa fai se arrivano degli ospiti a sorpresa, come ti relazioni agli altri; francamente mi sembrano domande rilassanti, molto più gestibili, quasi quasi me la sentirei di sottopormi ai test, potrei persino fare bella figura.
domenica 11 settembre 2011
in cortile
Immigrato in Italia negli anni '50, papà si lanciò nella produzione dei suoi giochi, non bambole purtroppo, ma didattici, degli stampini di legno con delle figure in gomma sopra da timbrare sulla carta e colorare. La fabbrica era in uno scantinato della periferia milanese, vi si accedeva da un grande cortile. Ho fatto il taxista per i miei ragazzi con incastri di orari da delirio, ma allora di soldi ne circolavano pochissimi e non si usava certo portare i bambini a judo, tennis, nuoto, danza, inglese, musica e non so cos'altro ancora, semplicemente si giocava nelle corti dei condomini, inaccessibili dall'ora di pranzo fino alle quattro, quattro e mezza del pomeriggio per non disturbare il riposo postprandiale. Il cortile della fabbrica invece era sempre aperto e a disposizione, divenne presto il "parco giochi" della via, ci venivano tutti. Lì per esempio è iniziata a cinque anni l'amicizia mai finita con Anna, saltavamo la corda, giocavamo a bandiera e a forza di succhiare con le labbra eternamente nere facevamo la punta di matita ai bastoni di liquirizia. Quel cortile era uno spazio "free" per noi bambini, ne ho goduto e basta, senza rendermi conto di quale preziosa opportunità "sociale" abbia rappresentato per l'aggregazione, per lo stare insieme, il nostro crescere. Mi ci ha fatto riflettere un libro edito da Einaudi acquistato nei mesi scorsi al Mart di Rovereto e letto nell'ozio dell'estate, "Dove abitano le emozioni", un' intervista a due voci con lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet e l'architetto Mario Botta condotta da Giuseppe Zois, giornalista e scrittore. Il titolo era troppo intrigante e il sottotitolo pure "La felicità e i luoghi in cui viviamo". I luoghi del vivere, dell'abitare, dell'apprendere, del lavorare, del viaggiare e altri ancora sono l'oggetto della riflessione, Crepet e Botta li interpretano con i loro saperi, nella presentazione al testo si sottolinea come i colori, la luce, e l'organizzazione degli ambienti possano generare solitudine, disagio e noia, ma anche benessere, creatività e incontro. Se Botta afferma che: "la storia dell'uomo è lo specchio anche della sua abitazione", Crepet fa notare che:"in altre civiltà e culture invece diventa più importante il fuori, il legame affettivo è vissuto all'esterno della casa: penso a comunità di pescatori che lo trasferiscono sulle loro imbarcazioni dipingendole con colori spettacolari........Stessa cosa per le cabine dei camionisti, arredate come una stanza privata". Se il sociologo sottolinea che: " nelle nostre città si annidano i cunicoli dell'identità", l'architetto che grazie al suo lavoro "interpreta lo spazio come un filtro dove transita la visione del mondo" completa il concetto affermando che "la città rappresenta la forma più avanzata di vita organizzata, delle sue relazioni sociali e delle possibilità che l'uomo ha di incontrare l'altro suo simile". Ben diversamente da come viene vissuta dall'uomo moderno, oggi che non c'è più l'osteria per gli uomini ed il sagrato per le donne (l'osteria delle massaie), "adesso siamo arrivati a uno schema di diffidenza generalizzata: il vicino non è uno che ti può aiutare, è prima di tutto uno da prendere con le pinze" (Crepet), alla base "la città è il luogo predisposto per vincere il sentimento della solitudine......in città incontriamo la storia di altri uomini, incontriamo esperienze vissute" (Botta). Mi è piaciuta molto la sintesi dei luoghi dell'abitare che l'architetto propone: "la valenza collettiva dell'abitare è una necessità nascosta ma presente. Non è possibile abitare da soli, si è sempre immersi in un contesto modellato da altri uomini"; mi ha fatto pensare ai rifugi antiatomici che certi si fanno costruire privatamente, svizzeri in testa. Neanche per idea, non lo voglio, avrò un tasso basso di spirito di sopravvivenza e nel contempo risparmio anche un sacco di soldi, ma cosa me ne faccio di restare in vita in un mondo dove non c'è più nessuno? Con chi parlo?
Mario Botta Paolo Crepet con Giuseppe Zois: Dove abitano le emozioni. La felicità e i luoghi in cui viviamo
Einaudi Stile libero 2007
mercoledì 7 settembre 2011
Saint Paul de Vence: la Fondation
Per qualcuno che bazzica la Costa Azzura non serve aggiungere altro, basta dire la Fondation e tutti capiscono di cosa si tratta, è la Fondation Maeght di Sant Paul de Vence, tempio di arte moderna e contemporanea fondato da Marguerite e Aimé Maeght.
E' il primo luogo d'arte che visito in assoluto ogni volta che arrivo, mi ero iscritta all'Associazione Amici del Museo negli anni di residenza nizzarda, qui le mostre più memorabili; ricordo in particolare "la Russie et les avant-gardes" del 2003, con opere di Chagall cubista prima maniera, i Suprematisti e Costruttivisti russi, degli straordinari Mondrian, Malevitch, Lissitzky che non erano mai usciti prima dall'Hermitage, dai grandi musei moscoviti e da collezioni private.
Forse mi è rimasta impressa perché ebbi la fortuna di visitarla la sera con un gruppo di amici in forma privata accompagnati da Adrien Maeght, figlio di Aimé e continuatore con la famiglia della Fondazione. Esperienza unica ascoltare le sue spiegazioni ed i suoi commenti ricchi di storie personali, i suoi ricordi giovanili degli artisti, (Braque, Giacometti, Mirò, Calder per esempio) divenuti amici, che abitualmente frequentavano la casa.
Ricordo in particolare che in quell'occasione Adrien Maeght sottolineò i costi stratosferici dell'organizzazione di una mostra così internazionale, per le opere, polizze assicurative alle stelle. Per qualche anno in seguito avrebbero dovuto stare tranquilli, accontentarsi di mostre meno importanti esibendo solo le loro collezioni permanenti.
Della Fondation non ne ho parlato prima perché non osavo, è come accostarsi ad un mostro sacro di fronte al quale ci si sente inadeguati. Alla Fondation tutto mi sembra bellissimo: il luogo innanzitutto, magico nella visita al tramonto quando gli autobus carichi di folla se ne sono già andati ed è quasi vuoto, il parco sulla collina con le sculture inserite nel verde, l'architettura modernissima della sede in contrasto con i massi provenzali tradizionali tutt'intorno, le opere d'arte esposte delle Collezioni permanenti, la qualità delle mostre temporanee.
Iniziatore di questo universo del bello è il mitico Aimé Maeght, incisore, litografo, mercante d'arte, gallerista, mecenate, editore, produttore di film, collezionista; interessi ed attività poliedriche per una vita d'eccezione, grande figura della scena artistica internazionale. Nel 1945, nel fervore del dopoguerra apre i battenti la Galleria Maeght a Parigi;
Bonnard, Matisse, Braque, i compagni della prima ora, si aggiungerà poi, strada facendo, una lista impressionante di pezzi da novanta dell'arte, Chagall, Mirò, Calder, Giacometti, Léger, Valerio Adami, Chillida, Rebeyrolle e tanti altri. Nel 1954 su consiglio di Fernand Léger i Maeght vanno negli Stati Uniti e visitano le grandi collezioni americane, Barnes, Phillips, Guggenheim, maturando l'idea di creare un luogo dove riunire le loro collezioni e dove gli amici artisti possano lavorare e scambiare idee.
Nasce così nel 1964 la Fondation Maeght di Saint Paul de Vence, con lo scrittore André Malraux, allora ministro della Cultura, che pronuncia il discorso di apertura. Che favola deve essere stata quell'inaugurazione con Yves Montand che cantava Prévert e la voce straordinaria di Ella Fitzgerald.
Fino al 1981, anno della sua morte, Aimé Maeght edita la rivista "Derrière le Miroir" cui collaborano con litografie ad hoc i più grandi artisti della seconda metà del XX° secolo e libri d'arte, momento di incontro privilegiato fra pittori e poeti, fusione di grafica e parola per la gioia dei bibliofili.
La mostra di quest'estate è dedicata allo spagnolo Eduardo Chillida, questo "scultore divenuto fabbro" secondo Gaston Bachelard, celebre per le sue sculture monumentali e per i suoi collage grafici e poetici. 80 sculture e 60 opere su carta che testimoniano di un grande sodalizio umano e creativo fra l'artista ed Aimé Maeght. Sul dépliant di presentazione dell'esposizione si cita questa frase dell'artista: " je n'ai jamais cherché la beauté. Mais quand on fait les choses comme il faut les faire, la beauté peut leur arriver".
Joan Mirò: Personnage 1972 |
Forse mi è rimasta impressa perché ebbi la fortuna di visitarla la sera con un gruppo di amici in forma privata accompagnati da Adrien Maeght, figlio di Aimé e continuatore con la famiglia della Fondazione. Esperienza unica ascoltare le sue spiegazioni ed i suoi commenti ricchi di storie personali, i suoi ricordi giovanili degli artisti, (Braque, Giacometti, Mirò, Calder per esempio) divenuti amici, che abitualmente frequentavano la casa.
Ricordo in particolare che in quell'occasione Adrien Maeght sottolineò i costi stratosferici dell'organizzazione di una mostra così internazionale, per le opere, polizze assicurative alle stelle. Per qualche anno in seguito avrebbero dovuto stare tranquilli, accontentarsi di mostre meno importanti esibendo solo le loro collezioni permanenti.
Della Fondation non ne ho parlato prima perché non osavo, è come accostarsi ad un mostro sacro di fronte al quale ci si sente inadeguati. Alla Fondation tutto mi sembra bellissimo: il luogo innanzitutto, magico nella visita al tramonto quando gli autobus carichi di folla se ne sono già andati ed è quasi vuoto, il parco sulla collina con le sculture inserite nel verde, l'architettura modernissima della sede in contrasto con i massi provenzali tradizionali tutt'intorno, le opere d'arte esposte delle Collezioni permanenti, la qualità delle mostre temporanee.
Pol Bury: Fontaine 1978 |
Bonnard, Matisse, Braque, i compagni della prima ora, si aggiungerà poi, strada facendo, una lista impressionante di pezzi da novanta dell'arte, Chagall, Mirò, Calder, Giacometti, Léger, Valerio Adami, Chillida, Rebeyrolle e tanti altri. Nel 1954 su consiglio di Fernand Léger i Maeght vanno negli Stati Uniti e visitano le grandi collezioni americane, Barnes, Phillips, Guggenheim, maturando l'idea di creare un luogo dove riunire le loro collezioni e dove gli amici artisti possano lavorare e scambiare idee.
Nasce così nel 1964 la Fondation Maeght di Saint Paul de Vence, con lo scrittore André Malraux, allora ministro della Cultura, che pronuncia il discorso di apertura. Che favola deve essere stata quell'inaugurazione con Yves Montand che cantava Prévert e la voce straordinaria di Ella Fitzgerald.
Fino al 1981, anno della sua morte, Aimé Maeght edita la rivista "Derrière le Miroir" cui collaborano con litografie ad hoc i più grandi artisti della seconda metà del XX° secolo e libri d'arte, momento di incontro privilegiato fra pittori e poeti, fusione di grafica e parola per la gioia dei bibliofili.
Chillida: La Casa de Juan Sebastian Bach. 1981 |
giovedì 1 settembre 2011
La Stampa cultura: dal Talmud a internet
Dal Talmud a Internet
è dolce il naufragare
Nella XII giornata della cultura ebraica le analogie tra il modo di procedere all'interno del testo rabbinico e nel Web
ELENA LOEWENTHAL
Tanto nel tempo quanto nello spazio, l’ebraismo ha da sempre un bislacco senso dell’orientamento: il mondo si estende verso quattro irraggiungibili angoli, che in ebraico sono detti «venti» (nel senso di folate, non di numero). Il tempo, dal canto suo, scorre lungo una linea ma ha anche un andamento circolare: in tale doppia, forse inconciliabile dimensione, il passato ci sta di fronte mentre il futuro è alle spalle, come insegna anche l’ Angelus Novus di Walter Benjamin. Nello spirito ebraico spazio e tempo si confondono, si scambiano i ruoli in un continuo ripensare se stessi. Spesso si dice infatti che per duemila anni gli ebrei hanno abitato il tempo e non lo spazio, la storia invece della geografia. Sparso ai quattro angoli del mondo e cacciato di qua e di là dai capricci dell’esilio, il vero territorio esistenziale del popolo d’Israele sono stati i libri. Sotto l’angusta porzione di cielo che concedevano le mura dei ghetti, gli ebrei hanno vissuto dentro, sopra i libri.
In questa geografia alternativa fatta di pagine e parole, c’è un luogo che ha un posto centrale, che tutto divide per unire: è il Talmud , parola ebraica che significa «oggetto di apprendimento» e indica la cosiddetta « Torah orale», cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno all’altra Torah , quella «scritta», quella per antonomasia - il Pentateuco . Il Talmud ha anche altri nomi, più o meno confidenziali. Ma è, come viene detto in ebraico, soprattutto un «mare»: yam ha-talmud .
Questa poetica metafora si addice certamente a un testo dalle dimensioni spropositate, in cui è facile perdersi. Ma non è solo questione di quantità. Nel Talmud si naviga davvero, si spazia con quell’anarchia irrefrenabile dettata dal senso ebraico dell’orientamento. O meglio, dalla sua beata assenza. E la giornata europea della cultura ebraica di quest’anno, giunta alla XII edizione, bene ha fatto a cogliere questo risvolto così antico e anche moderno del popolo d’Israele: il tema conduttore è «Ebr@ ismo 2: dal Talmud a Internet». Dove, per l’appunto, la strada non è affatto lunga come si possa pensare, malgrado i secoli e millenni: perché quando si abita il tempo periodi così diventano una passeggiata.
Se il Talmud è un mare, come tutti sappiamo in Internet si naviga. E non è una pura coincidenza lessicale. Il modo in cui si affronta il testo rabbinico, infatti, è molto simile alla tecnica che si usa cliccando e scorrendo con il topo informatico. Una pagina centrale - la home -, una serie di links che ti portano di qua e di là, in una sequenza illogica e niente affatto lineare in cui di rado per non dire quasi mai torni al punto di partenza. Basta aprire una pagina a caso del Talmud per rendersi conto di quella strabiliante somiglianza evidenziata dal titolo di un libro a suo modo profetico: Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi di Jonathan Rosen (tradotto da Einaudi nel 2001). Sarà sicuramente evocato nel dibattito che si terrà domenica alle 10 a Torino nel centro sociale della comunità (piazzetta Primo Levi): «Il Talmud : un ipertesto ante litteram ?».
In parole povere, non è solo una questione di forma, di somiglianza grafica per cui una pagina delTalmud , con al centro una breve porzione di testo e tutt’intorno una serie di rimandi, note, riferimenti, commenti e supercommenti, assomiglia a una schermata di Internet. È anche e soprattutto una questione di metodo, di sinapsi mentali e spirituali che questa forma del pensare innesca. Nel Talmud di solito funziona così: un maestro dice una cosa, un altro dice più o meno il contrario, arriva un terzo che invece di conciliare decide che o hanno ragione o hanno torto tutti e due, pesca una parola o una lettera dal contesto in cui si trova e con una disinvolta acrobazia mentale cambia radicalmente argomento e lascia beatamente in sospeso il contenzioso. Intanto, tutt’intorno a questi tre si innesca un ventaglio di riferimenti, talvolta pertinenti talaltra arditi ma sempre immancabilmente «fuori luogo»: fatti apposta per portarti lontano di lì, in un altrove ancora tutto da definire. Proprio come capita fra un clic e l’altro nell’universo di questa rete che, inutile negarlo, ci ha cambiato la vita mettendoci a disposizione un universo di conoscenze in cui l’unico orientamento possibile resta l’intuito, purché condito di fantasia.
Elena Loewenthal
da «La Stampa», Torino, giovedì 1° settembre 2011
In questa geografia alternativa fatta di pagine e parole, c’è un luogo che ha un posto centrale, che tutto divide per unire: è il Talmud , parola ebraica che significa «oggetto di apprendimento» e indica la cosiddetta « Torah orale», cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno all’altra Torah , quella «scritta», quella per antonomasia - il Pentateuco . Il Talmud ha anche altri nomi, più o meno confidenziali. Ma è, come viene detto in ebraico, soprattutto un «mare»: yam ha-talmud .
Questa poetica metafora si addice certamente a un testo dalle dimensioni spropositate, in cui è facile perdersi. Ma non è solo questione di quantità. Nel Talmud si naviga davvero, si spazia con quell’anarchia irrefrenabile dettata dal senso ebraico dell’orientamento. O meglio, dalla sua beata assenza. E la giornata europea della cultura ebraica di quest’anno, giunta alla XII edizione, bene ha fatto a cogliere questo risvolto così antico e anche moderno del popolo d’Israele: il tema conduttore è «Ebr@ ismo 2: dal Talmud a Internet». Dove, per l’appunto, la strada non è affatto lunga come si possa pensare, malgrado i secoli e millenni: perché quando si abita il tempo periodi così diventano una passeggiata.
Se il Talmud è un mare, come tutti sappiamo in Internet si naviga. E non è una pura coincidenza lessicale. Il modo in cui si affronta il testo rabbinico, infatti, è molto simile alla tecnica che si usa cliccando e scorrendo con il topo informatico. Una pagina centrale - la home -, una serie di links che ti portano di qua e di là, in una sequenza illogica e niente affatto lineare in cui di rado per non dire quasi mai torni al punto di partenza. Basta aprire una pagina a caso del Talmud per rendersi conto di quella strabiliante somiglianza evidenziata dal titolo di un libro a suo modo profetico: Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi di Jonathan Rosen (tradotto da Einaudi nel 2001). Sarà sicuramente evocato nel dibattito che si terrà domenica alle 10 a Torino nel centro sociale della comunità (piazzetta Primo Levi): «Il Talmud : un ipertesto ante litteram ?».
In parole povere, non è solo una questione di forma, di somiglianza grafica per cui una pagina delTalmud , con al centro una breve porzione di testo e tutt’intorno una serie di rimandi, note, riferimenti, commenti e supercommenti, assomiglia a una schermata di Internet. È anche e soprattutto una questione di metodo, di sinapsi mentali e spirituali che questa forma del pensare innesca. Nel Talmud di solito funziona così: un maestro dice una cosa, un altro dice più o meno il contrario, arriva un terzo che invece di conciliare decide che o hanno ragione o hanno torto tutti e due, pesca una parola o una lettera dal contesto in cui si trova e con una disinvolta acrobazia mentale cambia radicalmente argomento e lascia beatamente in sospeso il contenzioso. Intanto, tutt’intorno a questi tre si innesca un ventaglio di riferimenti, talvolta pertinenti talaltra arditi ma sempre immancabilmente «fuori luogo»: fatti apposta per portarti lontano di lì, in un altrove ancora tutto da definire. Proprio come capita fra un clic e l’altro nell’universo di questa rete che, inutile negarlo, ci ha cambiato la vita mettendoci a disposizione un universo di conoscenze in cui l’unico orientamento possibile resta l’intuito, purché condito di fantasia.
Elena Loewenthal
da «La Stampa», Torino, giovedì 1° settembre 2011
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