Domattina all'alba si parte coi ragazzi zaino in spalla (per davvero, non in senso metaforico) per un giro a est del paese. Aiutooooo! Ho un po' fifa. Faccio pertanto in anticipo i miei auguri con tre vere bellezze locali fotografate in questi giorni a Libreville!
venerdì 21 dicembre 2012
Gabon: ça va mamà?.....ça va, ça va
E poi c'è il clima che ti spezza le gambe e ti logora, caldo- umido sempre, con due stagioni "secche" nel senso che l'igrometro segna l'80% di umidità invece che il cento per cento del resto dell'anno: una lunga da maggio a settembre e una più breve, il cosiddetto "piccolo inverno" da dicembre a gennaio, quella in cui è arrivata la sottoscritta. Se stai ferma, seduta in balcone a leggere e scrivere guardando le acque dolci dell'estuario del fiume Komo mescolarsi a quelle salate dell'oceano come faccio io, non c'è problema, si sta benissimo, la temperatura è sui 25-26 gradi, ma appena ti muovi, sudi a più non posso e sei stanca prima ancora di aver cominciato a fare quello che devi fare. Si inizia a giustificare pienamente la "lentezza africana", hanno tutte le ragioni del mondo, muoversi, lavorare, persino pensare, tutto stanca .
Anche senza Gastone che nei viaggi è una garanzia, sono stata fortunata, i ragazzi mi hanno messo generosamente a disposizione la loro stanza, spartana ma confortevolissima e a partire dal tramonto, immancabilmente tutto l'anno alle 18,30, non si può stare in balcone perché si svegliano le zanzare, bloccate "fuori" si spera dalle zanzariere alle finestre, ma si sveglia pure dal mare una piacevolissima brezza ristoratrice.
Una mattina che non lavorava Francesco mi ha portato nei luoghi che ama, il quartiere di Montagne Sainte appollaiato su una collina, primo nucleo abitativo della città, casette piccole e verde intorno, un tempo abitato dalla numerosa colonia francese che adesso si è trasferita nei quartieri residenziali sul mare, la Sablière è il più chic di tutti dove abita il Presidente Alì Bongo e anche la mia amica Karina. A Montagne Sainte si trova una delle poche moschee della città, la popolazione mussulmana qui è minoritaria, rappresentando solo l'1% del milione e mezzo di abitanti del paese all'80% cristiani.
E poi, esperienza bellissima, al mercato Mont Bouet, frequentato abitualmente solo dagli africani, dove eravamo veramente gli unici "bianchi" in circolazione e non sempre guardati con simpatia, ma dove il mio ragazzo si è fatto delle amiche fra le venditrici di bancarelle e persino i loro mariti e la cosa mi ha fatto molto piacere. Ha portato loro dei doni, dei sacchetti di noci siciliane tenuti da parte dalle ultime vacanze estive nella Trinacria paterna. Erano molto contente, Jannette in particolare, tredici figli all'attivo, che ha voluto farsi fotografare con lui aggiustandosi prima per bene il turbante in testa.
Divisione merceologica delle bancarelle, belle esposizioni ordinate e pulite, nessun odore troppo intenso, grande quantità di polli e pesci affumicati, mai visto la trippa, vicina ai codini di manzo, presentata così accuratamente allineata; la parte del mercato coperto è stata una graditissima sorpresa, ma non così in altre zone all'aperto per la verità. Per la prima volta ho visto i grani di mango selvaggio che lavorati diventano panetti, l'odika, per fare la "sauce au chocolat" con un gusto non dolce ma leggermente affumicato che si usa per accompagnare le carni e il pesce. Il panetto viene grattuggiato, allungato sul fuoco con dell'acqua, Francesco ci aggiunge della cipolla rosolata e voilà, la salsa è pronta.
Interessante la scoperta degli usi locali nell'abbigliamento per i matrimoni, cotoni dai colori e dalle fantasie sgargianti. Tutta la famiglia dalla parte della sposa si deve vestire con lo stesso tessuto e parimenti la famiglia del promesso. Così quando vanno nel negozio, familiari e invitati alla cerimonia delle due parti trovano gli annunci delle scelte dei tessuti degli sposi e sanno cosa comprare.
E dulcis in fundo una chicca di Mont Bouet. Sedute in una scalinata all'interno del mercato le donne si facevano mettere le varie coiffure, trecce e treccine dalle "parrucchiere locali". Troppo belle, desideravo immortalare la scena a tutti i costi, ma da queste parti non si può fotografare facilmente, si deve sempre chiedere il permesso alle persone e talvolta ti dicono di no. Ho cercato il contatto facendole ridere perché nessuno è perfetto, ma con i miei capelli ricci, divenuti con l'umidità locale super crespi, in fondo sono "afro" anch'io, un' afro albina.
mercoledì 19 dicembre 2012
Gabon: dall'equatore
Per non fare confusione fra idee, foto, appunti e pensieri ho scelto di non mescolare i continenti e di terminare prima le mie note di viaggio nipponiche; adesso che la cosa è fatta posso confessare che gli ultimi due post sull'impero del sol levante non ho fatto in tempo a scriverli al mio ritorno milanese, ma dall'equatore. Già, ve lo ricordate quel figlio ecologista, terzomondista, idealista, saccopelista che da Parigi se n'era andato ad insegnare la matematica nell'Africa profonda?
Si, Francesco, proprio lui! Mettendo in pratica quel vecchio proverbio "Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto" ho pensato che se non superavo le mie paure di clima, vaccinazioni, zanzare assassine, avrei passato altri dodici mesi senza vederlo come l'anno scorso fino alle vacanze estive e francamente è stato troppo, a giugno durante due chiacchiere su skype ero scoppiata a piangere come una matta, scherzi della nostalgia. Così venerdì 14 dicembre ero su un volo Air France per il Gabon.
Viaggio epico, a Milano 50 centimetri di neve, tre ore di ritardo e cara grazia che siamo partiti, ho naturalmente perso la coincidenza a Parigi per il volo diretto a Libreville e sono arrivata via Casablanca con Air Royal Maroc alle tre di notte. Poco importa, sono quisquilie, conta che adesso sono qui seduta sul suo balcone in riva all'oceano con il rumore delle onde nelle orecchie e alberi e palme di tutti i tipi davanti agli occhi e poi in volo le ore sono passate veloci grazie alla conoscenza della simpaticissima Karina.
Compagna di sventura, è una gabonese tutta pepe che si è sposata, i casi della vita, con un mobiliere di Cantù e vivono tra Libreville dove hanno un negozio di mobili e la Brianza dove vanno regolarmente ad approvvigionarsi per la loro attività di import-export. Con intraprendenza tutta italiana, Karina al mattino sta in negozio col marito tra divani e comò e il pomeriggio si è creata uno studio estetico dove sbianca i denti alle signori locali. Sono già andata a trovarla qui a casa sua ed è veramente una forza della natura.
Certo passare da tempi e performances giapponesi a ritmi e modus vivendi equatoriali con un intermezzo milanese tutto bianco di neve è stato uno choc mica da ridere e anche se non sono Einstein me ne sono accorta subito, due ore all'aeroporto per denunciare il mancato arrivo della mia valigia da immigrato, non di cartone e senza lo spago intorno, ma comunque piena di parmigiano, cioccolato, tè, caffè, pomodori secchi e capperi sotto sale e meno male che non ho portato le mozzarelle come ha fatto Karina che anche lei come me le sue tre valige piene di leccornie e doni per i suoi due figli le ha ricuperate solo l'indomani.
Osservando il personale seduto immobile che ti guarda indifferente mentre ti agiti davanti allo sportello, le ore impiegate per una qualunque operazione che necessita non più di cinque minuti, il lungomare costellato di gendarmi chiuso al traffico per mezz'ora due volte al giorno, mattino e sera, perché deve passare il Presidente che va al lavoro, la fortuna di avere l'acqua in casa a tutte le ore perché il sindaco abita da queste parti, l'unico bar della spiaggia a nome Nescafé che il caffé non lo può fare per mancanza di gruppo elettrogeno, ho capito che dovevo operare una rapida e necessaria trasformazione mentale.
Per non incazzarmi, godermi tranquillamente il soggiorno con i ragazzi (si en passant c'è anche lo sforzo di non fare la suocera rompipalle) e vivere questa nuova realtà che mi sta intorno, urge rotazione del coppino di 360 gradi e abbandono totale di tutti i miei soliti parametri logico-interpretativi, in pattumiera i riferimenti abituali. Sara, rinuncia a capire, apri gli occhi, guarda e stupisci, questo è un altro mondo e comunque di colore ce n'è a bizzeffe!
martedì 18 dicembre 2012
Sayoonara Giappone e il colore?
Ci sono viaggi, senz'altro i più belli, che ti prendono la testa e il cuore. La testa nel senso che la curiosità intellettuale viene continuamente sollecitata e il cuore perchè i luoghi che vedi e le persone che incontri suscitano magicamente in te grande empatia. Ho provato questo senso di pienezza in Myanmar e in Cile e ovviamente, considerate le lontananze dei due paesi, per ragioni diversissime. In Cile si concentrano all'ennesima potenza tutte le bellezze di madre natura e l'atmosfera umana è solare, mi sono sentita a casa, potrei andarci a vivere domani.
In Birmania sorprendente il totale estraniamento, come catapultata in un altro pianeta di cui vorresti sapere tutto perché ignori ogni cosa e il dolcissimo sorriso, disarmante e autentico di decine di migliaia di Buddha e delle persone. Ci sono poi i viaggi che ti strappano soprattutto il cuore, tale è il calore dell'ambiente e della sua gente e penso alla magica Cuba con la sua musica che ti accompagna a tutte le ore e spunta da ogni anfratto.
Infine i viaggi della testa, intellettualmente e visivamente super stimolanti, straordinarie certe realizzazioni di architettura contemporanea, ma dove il cuore no, quello di una trasgressiva mediterranea come me, non riesce a vibrare ed è il caso del Giappone. Se mi si chiedesse di definire il paese con un solo aggettivo risponderei senza esitazione "estremo". Secondo me è estremo in tutti i sensi e cerco di spiegarmi. Per posizione geografica, già in quanto isola e al di fuori di tutti i continenti, per la sua storia, è stato un paese sempre indipendente e occupato per la prima volta e per breve tempo solo nel 1945, per scelte politiche strenuamente isolazioniste, per la costante difesa e fierezza di valori e tradizioni ancestrali.
Estremo per rigore, igiene, disciplina, ordine, raffinatezza, efficienza, obbedienza collettiva, organizzazione, rispetto di formalismi e convenzioni, ma come sempre c'è il risvolto della medaglia con le sue facce negative. In Giappone per esempio ogni dettaglio è curatissimo, persino i tombini delle strade vogliono risultare opere d'arte, persino il disordine ambisce ad essere ordinato, ma allora che disordine è? C'è spazio per un po' di sano, fisiologico casino o tutto deve essere sempre perfetto, troppo perfetto? controllato, troppo controllato?
Ed è mai possibile che non si possa fumare neanche all'aperto se non in apposite zone agli angoli di certe strade? Fumare è un piacere che si vuole condividere stando in mezzo agli altri e of course ho trasgredito, cosa me ne faccio di mettermi da sola in castigo in un cantuccio magari con le orecchie d'asino come si usava una volta dietro la lavagna? E poi il divieto non è per la salute degli altri, perché in tutti i ristoranti e luoghi pubblici chiusi si può fumare, eccome, è giusto per non avere i mozziconi per terra.
In viaggio amo fotografare la gente suscitando le più svariate reazioni individuali, chi gradisce, chi non vuole, chi sorride, chi fa una smorfia. In Giappone un'omogenea reazione collettiva, tutti sorridono, tutti si mettono in posa con il gesto di vittoria delle mani, persino il bambinetto di tre anni ancora un po' impacciato si esercita con le dita. Un'omologazione comportamentale frutto, credo, di modelli troppo rigidi.
Non c'è un cane che corra in libertà, tutti rigorosamente al guinzaglio anche nei prati, anche nei parchi, anche in piena natura, in compenso ho visto tanti quattro zampe portati in carrozzina e la cosa la dice lunga. Da queste parti per gli specialisti della psiche dovrebbe essere una manna. Una società ad alta competitività, dove lo stress e la pressione sui bambini inizia a tre anni per poter entrare nell'asilo giusto, tappa necessaria per accedere poi alla scuola elementare giusta e così di seguito fino alla fine degli studi e dove il tasso di suicidi è fra i più alti del mondo.
E il colore, la fantasia, un po' di sana follia, dove sono andati a finire? I colori dominanti del Giappone sono il bianco, il beige, il grigio, il nero esattamente come tutti i panni stesi, come gli uomini rigorosamente vestiti solo di scuro che al mattino si affrettano a grandi passi sulla metropolitana.
Ho avuto bisogno di vedere le onde grigiastre del mare del nord, quei cieli carichi di nuvole, la natura talvolta cupa di certi paesaggi malinconici per comprendere il tormentato movimento letterario e artistico del romanticismo che certo non poteva sorgere nell'assolata costiera amalfitana, così scelte estreme come fare il kamikaze o praticare il harakiri mi sono risultate più comprensibili a stretto contatto col contesto giapponese. Una società strettamente regolamentata, strutturata, disciplinata, codificata, può finire per suscitare reazioni estreme, come la violenza di certi manga, come la raffinatissima ma particolare fantasia erotica dello scrittore Kawabata nel suo racconto "La casa delle belle addormentate", come quei kamikaze simboli-martire dell'eccesso di obbedienza militare o come il suicidio rituale non solo degli antichi samurai, ma di un uomo dei giorni nostri, quel poeta, scrittore, saggista che fa di nome Yukio Mishima.
Il 25 novembre 1970 Mishima ha minuziosamente organizzato la sua tragica morte, un suicidio rituale, in diretta davanti allo schermo televisivo per sottolineare la sua ribellione di fronte a quello che lui considerava un tradimento dell'onore e dei valori ancestrali del suo paese. Sottoscrivendo il Trattato di San Francisco nel 1951, il Giappone aveva rinunciato per sempre ad avere un proprio esercito se non per la stretta autodifesa, abdicazione della propria autonomia e sottomissione agli Stati Uniti, entrambe inaccettabili per Mishima. E parole del poeta Mishima pendevano sospese in un'installazione artistica (Inujima Art Project) sull'isola Inujima in una vecchia fabbrica di rame, esempio restaurato e trasformato di archeologia industriale; non ne ho scritto in modo più esteso perché quel luogo mi ha comunicato malinconia.
Sayoonara ai covoni di spighe di riso delle campagne, alle bellissime saracinesche dipinte viste al mercatino vicino al Tempio di Senso-ji, sayoonara ai magnifici tramonti sulle isole del mare interno con le ciminiere che fumavano e sembrava un paesaggio metafisico, sayoonara a quel magnifico signore che con la coperta sulle gambe dipingeva sereno il panorama davanti a lui, sayoonara ai miei splendidi compagni di viaggio con i quali una volta ancora mi sono trovata benissimo e ho avuto il piacere di scoprire tante cose.
In Birmania sorprendente il totale estraniamento, come catapultata in un altro pianeta di cui vorresti sapere tutto perché ignori ogni cosa e il dolcissimo sorriso, disarmante e autentico di decine di migliaia di Buddha e delle persone. Ci sono poi i viaggi che ti strappano soprattutto il cuore, tale è il calore dell'ambiente e della sua gente e penso alla magica Cuba con la sua musica che ti accompagna a tutte le ore e spunta da ogni anfratto.
Infine i viaggi della testa, intellettualmente e visivamente super stimolanti, straordinarie certe realizzazioni di architettura contemporanea, ma dove il cuore no, quello di una trasgressiva mediterranea come me, non riesce a vibrare ed è il caso del Giappone. Se mi si chiedesse di definire il paese con un solo aggettivo risponderei senza esitazione "estremo". Secondo me è estremo in tutti i sensi e cerco di spiegarmi. Per posizione geografica, già in quanto isola e al di fuori di tutti i continenti, per la sua storia, è stato un paese sempre indipendente e occupato per la prima volta e per breve tempo solo nel 1945, per scelte politiche strenuamente isolazioniste, per la costante difesa e fierezza di valori e tradizioni ancestrali.
Estremo per rigore, igiene, disciplina, ordine, raffinatezza, efficienza, obbedienza collettiva, organizzazione, rispetto di formalismi e convenzioni, ma come sempre c'è il risvolto della medaglia con le sue facce negative. In Giappone per esempio ogni dettaglio è curatissimo, persino i tombini delle strade vogliono risultare opere d'arte, persino il disordine ambisce ad essere ordinato, ma allora che disordine è? C'è spazio per un po' di sano, fisiologico casino o tutto deve essere sempre perfetto, troppo perfetto? controllato, troppo controllato?
Ed è mai possibile che non si possa fumare neanche all'aperto se non in apposite zone agli angoli di certe strade? Fumare è un piacere che si vuole condividere stando in mezzo agli altri e of course ho trasgredito, cosa me ne faccio di mettermi da sola in castigo in un cantuccio magari con le orecchie d'asino come si usava una volta dietro la lavagna? E poi il divieto non è per la salute degli altri, perché in tutti i ristoranti e luoghi pubblici chiusi si può fumare, eccome, è giusto per non avere i mozziconi per terra.
In viaggio amo fotografare la gente suscitando le più svariate reazioni individuali, chi gradisce, chi non vuole, chi sorride, chi fa una smorfia. In Giappone un'omogenea reazione collettiva, tutti sorridono, tutti si mettono in posa con il gesto di vittoria delle mani, persino il bambinetto di tre anni ancora un po' impacciato si esercita con le dita. Un'omologazione comportamentale frutto, credo, di modelli troppo rigidi.
Non c'è un cane che corra in libertà, tutti rigorosamente al guinzaglio anche nei prati, anche nei parchi, anche in piena natura, in compenso ho visto tanti quattro zampe portati in carrozzina e la cosa la dice lunga. Da queste parti per gli specialisti della psiche dovrebbe essere una manna. Una società ad alta competitività, dove lo stress e la pressione sui bambini inizia a tre anni per poter entrare nell'asilo giusto, tappa necessaria per accedere poi alla scuola elementare giusta e così di seguito fino alla fine degli studi e dove il tasso di suicidi è fra i più alti del mondo.
E il colore, la fantasia, un po' di sana follia, dove sono andati a finire? I colori dominanti del Giappone sono il bianco, il beige, il grigio, il nero esattamente come tutti i panni stesi, come gli uomini rigorosamente vestiti solo di scuro che al mattino si affrettano a grandi passi sulla metropolitana.
Ho avuto bisogno di vedere le onde grigiastre del mare del nord, quei cieli carichi di nuvole, la natura talvolta cupa di certi paesaggi malinconici per comprendere il tormentato movimento letterario e artistico del romanticismo che certo non poteva sorgere nell'assolata costiera amalfitana, così scelte estreme come fare il kamikaze o praticare il harakiri mi sono risultate più comprensibili a stretto contatto col contesto giapponese. Una società strettamente regolamentata, strutturata, disciplinata, codificata, può finire per suscitare reazioni estreme, come la violenza di certi manga, come la raffinatissima ma particolare fantasia erotica dello scrittore Kawabata nel suo racconto "La casa delle belle addormentate", come quei kamikaze simboli-martire dell'eccesso di obbedienza militare o come il suicidio rituale non solo degli antichi samurai, ma di un uomo dei giorni nostri, quel poeta, scrittore, saggista che fa di nome Yukio Mishima.
Il 25 novembre 1970 Mishima ha minuziosamente organizzato la sua tragica morte, un suicidio rituale, in diretta davanti allo schermo televisivo per sottolineare la sua ribellione di fronte a quello che lui considerava un tradimento dell'onore e dei valori ancestrali del suo paese. Sottoscrivendo il Trattato di San Francisco nel 1951, il Giappone aveva rinunciato per sempre ad avere un proprio esercito se non per la stretta autodifesa, abdicazione della propria autonomia e sottomissione agli Stati Uniti, entrambe inaccettabili per Mishima. E parole del poeta Mishima pendevano sospese in un'installazione artistica (Inujima Art Project) sull'isola Inujima in una vecchia fabbrica di rame, esempio restaurato e trasformato di archeologia industriale; non ne ho scritto in modo più esteso perché quel luogo mi ha comunicato malinconia.
Sayoonara ai covoni di spighe di riso delle campagne, alle bellissime saracinesche dipinte viste al mercatino vicino al Tempio di Senso-ji, sayoonara ai magnifici tramonti sulle isole del mare interno con le ciminiere che fumavano e sembrava un paesaggio metafisico, sayoonara a quel magnifico signore che con la coperta sulle gambe dipingeva sereno il panorama davanti a lui, sayoonara ai miei splendidi compagni di viaggio con i quali una volta ancora mi sono trovata benissimo e ho avuto il piacere di scoprire tante cose.
Termino questo mio interessantissimo viaggio nel paese del sol levante con una proposta bislacca, ovvero un gemellaggio Tokyo-Napoli. Non so quale personalità proporre come capo della delegazione nipponica in visita al Vesuvio, non conosco nessuno, ma per quanto concerne casa nostra avrei le idee chiare: un bel gruppo partenopeo di Posillipo con in testa Luciano de Crescenzo in assenza del grande Eduardo purtroppo buonanima. Mescolando efficienza e rigore degli uni, fantasia individuale e allegria degli altri, secondo me scoppierebbero faville con benefici per entrambe le città, meglio dei botti di San Gennaro.
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