Il mio Maestro di ermeneutica biblica racconta spesso una storiella, quella di un vecchio rabbi in una vecchia Polonia che ormai non esiste più che in un giorno di festa, stretto fra la folla che affettuosamente gli sta intorno, si rivolge a un modestissimo fedele chiedendogli di cosa viva. Il poveretto, stupito di suscitare l' interesse del grande saggio, rosso in viso e mezzo balbettante per l'emozione risponde che è un fornaio, che si alza tutte le mattine alle 4, che accende il forno, setaccia la farina, la impasta con acqua e lievito, fa il pane. Il rabbi ascolta e poi gli rinnova la domanda. Col sudore che gli imperla la fronte, il timore di non essere stato chiaro, il fedele cercando nuove parole ribadisce la sua risposta. Ma una volta ancora questa non sembra soddisfare l'interlocutore e più e più volte il malcapitato, sempre più paonazzo e imbarazzato ripete la sua storia fino a quando dolcemente il Rabbi lo rassicura: "scusa, è colpa mia, forse non sono stato chiaro nella formulazione. Non desidero sapere cosa fai, ma di cosa vivi, quali sono i sogni che ti fanno vivere". I sogni sono preziosi, della loro autenticità ci possiamo fidare, danno voce alle nostre aspirazioni più intime e segrete, misteriose talvolta persino a noi stessi. Ma siamo proprio sicuri che tutti i sogni ci fanno bene? Non è che accanto a quelli che fanno vivere si annidano anche dei sogni nefasti che ci fanno un po' morire e che sarebbe più proficuo abbandonare? Esprimerò questo mio dubbio alla prossima lezione col Maestro, ma nel frattempo rifletto sulla precisione del linguaggio che non è mai un'operazione prettamente formale. Quant'è labile il confine tra sogno ed illusione? Non sarà che il vero nome di quel sogno impossibile e malato è in realtà "illusione"? La prospettiva cambierebbe completamente e in positivo, invece di piangere per un sogno andato in frantumi si può forse imparare a gioire per il liberamento da un'illusione coltivata e nutrita nell'io più profondo, ma solo d'illusione si trattava.
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