Uno degli imponenti palazzi del viale, il numero 60 per la precisione, è stato scelto come sede dei propri organi di violenza di stato da entrambi i due regimi dittatoriali del novecento che hanno segnato la storia dell'Ungheria, le croci frecciate, ovvero i nazisti magiari prima e i comunisti, poi. Lungo il cornicione esterno una fila di volti; le date della morte riguardano i due periodi, il 1944-45 per alcuni per mano dei fascisti tedeschi ed ungheresi e gli anni 45-56 per altri, vittime dei subentrati comunisti.
Di estrema destra o di sinistra, sempre drammaticamente di orrore di stato si tratta e "La casa del terrore" è diventato il nome dell'edificio da quando nel 2002 è spazio espositivo. Questa è stata la sede della redazione di un giornale dell'estrema destra e il movimento nazional-socialista ungherese (il cosiddetto partito delle Frecce Crociate) aveva affittato degli uffici nel palazzo neorinascimentale sin dal 1937; Ferenc Szàlasi, il capo dei nazisti ungheresi, aveva scelto l'idilliaco nome di " Casa della Fedeltà".
Migliaia le persone torturate anche per settimane nelle celle dei labirinti sotterranei del palazzo che non ho voluto fotografare. Quando nel 1945 l'Ungheria viene occupata dall'esercito sovietico, ai nazisti in fuga si sostituisce la polizia segreta comunista, il PRO (Dipartimento Politico di Ordine Pubblico) divenuto poi AVO (Dipartimento per la Protezione dello Stato) e da ultimo AVH. Gli zelanti impiegati avevano potere di vita e di morte su tutto e tutti, tristemente famosi l'apparato terroristico dell'Organizzazione e il suo direttore Gàbor Péter, un ex-sarto. "Quando dalla cantina di via Andràssy 60 venni condotto al primo interrogatorio serio, pregai Dio almeno per un'ora, perché cancellasse i nomi dei miei amici dalla mia memoria" (abate Vendel Endrédy che ha passato 6 anni in cella d'isolamento). Due lastre di marmo, una nera ed una rossa all'ingresso, sottolineano simbolicamente la duplice tragedia del paese.
Sui monitor, filmati d'epoca documentano il duplice orrore: da un lato il genocidio, Hitler con le masse che lo osannano, scene dal campo di concentramento di Bergen Belsen, film di propaganda dei nazisti ungheresi, dall'altro scorrono le immagini dell'Armata Rossa, della firma del patto Molotov-Ribbentrop, delle parate sulla Piazza Rossa, la presa dei criminali di guerra nazi-fascisti e i loro interrogatori in questo stesso palazzo. Anche le sale e i loro arredamenti cambiano, diversi i modi di procedere, sfilano le varie divise delle due dittature e sagome di personaggi chiave, la moquette per terra rappresenta la pianta dell'Unione Sovietica con segnate le città dove venivano deportati gli ungheresi, sullo sfondo foto con il triste ed ostile paesaggio siberiano, nelle bacheche reliquie dagli innumerevoli gulag e dai milioni di morti. "Più scendiamo nella profondità del passato, e meno sono i superstiti; la tradizione orale tace, la memoria si perde nell'oscurità..." scriverà Solzenitsyn.
Documentata anche la sofferenza dei "kulak", i contadini benestanti della sterminata campagna ungherese. Venivano costretti a consegnare la maggior parte dei raccolti alle autorità dello Stato, prima il versamento obbligatorio e solo in un secondo tempo l'eventuale possibilità di provvedere al fabbisogno della famiglia. Il partito comunista non trovava ripugnante nessun metodo nel suo proposito di distruggere il tradizionale stile di vita delle campagne e di forzare i contadini ad abbandonare le loro terre.
Sui giornali la propaganda scriveva "L'AVH protegge anche i contadini lavoratori", ma Stalin nel '46 aveva pronunciato parole terribili contro il paese da sempre fedele alleato della Germania: "L'Ungheria dev'essere punita in un modo esemplare". Molte anche le personalità ecclesiastiche perseguitate ed imprigionate. Il nazismo, fautore della guerra razziale e il comunismo sostenitore della guerra di classe vedevano, entrambi, un nemico nella religione; in fondo questa opera sulla persona e le sue responsabilità individuali mentre le dittature perseguitano le loro vittime in base a criteri collettivi e qualsivoglia sistema etico-religioso non può condividere i principi delle dittature.
Nella gamma dell'orrore c'è solo l'imbarazzo della scelta: si passa dalle copie degli oltre 800 fascicoli custoditi nell'Archivio Storico dei Servizi di Sicurezza con i documenti dei processi farsa svoltisi dal '45 al '56 alla sala Propaganda, manifesti, giornali, film, tutto costruito a tavolino e tante menzogne. Dietro uno scaffale di dossier c'è una cabina nascosta con una poltrona ed un telefono. Sta a ricordare il sistema giudiziario in atto per cui il processo veniva gestito direttamente dall'esecutivo, in violazione del principio della divisione dei poteri e dell'indipendenza dei giudici (quelli indipendenti erano stati naturalmente epurati), tratto fondamentale di ogni Stato di diritto.
"Non solo custodire, ma odiare!" era uno dei motti del personale dell'AVO negli anni '50 e il concetto risulta chiaro osservando le varie "sale trattamenti" con gli strumenti di tortura e il braccio della morte dove avvenivano le esecuzioni. Nella lunga lista di martiri ricordati nei bui sotterranei mi ha colpito, chiaramente per la sua omonimia, Eva Braun (1917-1945). Nella documentazione del museo scopro che questa Eva Braun ha fatto ben altre scelte di vita: impiegata, militante della resistenza comunista, il 19 marzo 1944, giono dell'occupazione tedesca, scompare nella clandestinità e dirige la stampa della resistenza comunista.Il primo gennaio 1945 verrà catturata e fucilata dai nazisti insieme ad altri compagni.
Il 25 febbraio 1956 nel suo discorso segreto al XX° Congresso del Partito Comunista dell'URSS, Krusciov denuncia per la prima volta i crimini dell'era staliniana e il 23 ottobre di quello stesso anno il popolo ungherese si ribella: "Quello che avevamo ritenuto impossibile-che un popolo potesse abbattere, da solo, uno Stato totalitario-è diventato realtà.", scriverà sulla stampa francese il grande Raymond Aron, ma come si sa entrano a Budapest i carri armati russi e la rivolta viene spenta nel sangue. Solo nel 1989 gli ultimi consiglieri sovietici lasceranno l'Ungheria, un anno prima del crollo del regime comunista.
Fra il rosso e il nero c'è posto per tutti, una lunga, terribile lista di vittime: i deportati nell'Unione Sovietica, i militanti del movimento operaio, i membri della resistenza antinazista, pastori calvinisti, monaci, preti, sacerdoti e persino il vescovo cattolico Vilmos Apor, i caduti della rivoluzione del '56, studenti, militari, politici, intellettuali, gente comune, gli eroi del quotidiano .
A Buda, sulla collina del monte Gellért che sovrasta tutta la città, nel 1947 è stata eretta dai "liberatori" comunisti la Statua della Libertà che doveva testimoniare della fine della guerra e dell'occupazione tedesca; ai piedi della donna, simbolo della vittoria che regge un ramo di palma nelle mani, si trovano due figure, una simboleggia il progresso, l'altra la lotta contro il male. In realtà dovevano passare altri 46 anni perché quel nome "Libertà" assumesse il suo vero significato. Dovevano passare 46 anni perché l'edificio situato al numero 60 del viale Andràssy potesse rinascere, non per torturare ma per ricordare e testimoniare. Per l'Ungheria che è sopravissuta alle due più terribili dittature del '900, dopo decenni di silenzio è arrivato il momento di guardare al proprio passato chiamando finalmente per nome i protagonisti di questa storia, vittime e aguzzini.
tutto mi ha coinvolta e toccata nel profondo dentro e fuori la casa della memoria ungherese che, come ogni memoria, è anche memoria di tutta l'umanità. in particolare mi ha colpita un filmato che testimoniava l'esplosione di gioia del popolo ugherese il giorno della liberazione dal nazifascismo tedesco e ungherese: sorrisi, pugni alzati ... tanta gioia che mi stringeva il cuore sapendo quanto sarebbe stata soffocata dal comunismo reale che ha rappresentato il più alto tradimento dei valori socialisti. brava sara che ti fai carico di tante testimonianze che vivo come un dono. un abbraccio, liliana
RispondiEliminaBrava Sara!!
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