giovedì 27 giugno 2013

gramigna della terra, gramigna dell'anima

La mia amica Donatella è appassionata da sempre di fiori, piante, giardini, il mondo del verde come si suol dire oggigiorno, ma è anche curiosa dell'uomo sapiens sapiens e in particolare dei meandri complessi e talvolta misteriosi del suo pensiero. Così, per saperne di più e certamente per conoscere meglio se stessa, si è iscritta a un corso triennale di counseling ad indirizzo psicosintetico ( metodo psicologico integrale fondato dal medico e psichiatra Roberto Assagioli, considerato dallo stesso Freud come il primo psicanalista italiano). Un'esperienza interessante, ha lavorato con un gruppo stimolante, letto molti libri, imparato un sacco di cose che non conosceva, si è rimessa in gioco con prove ed esami e ha doverosamente terminato il ciclo di studi con una tesi. E qui viene il bello perché mi ha regalato una copia del suo scritto che ho letto con grande interesse scoprendo che con la scelta del soggetto della sua tesi è riuscita a conciliare egregiamente i suoi due principali interessi, la natura e la psicologia. Già il titolo la dice lunga delineando le aree di ricerca: " Dal giardino ideale al giardino realizzato: Il percorso dalla natura all'anima".  

Donatella relata in parallelo del suo lavoro concreto forbici e zappa in mano in un suo giardino nella campagna veneta  e di riflessioni e cambiamenti interiori suscitati in lei da questa operosità creativa e minuziosamente osservati; un andirivieni continuo fra l'esterno del giardino e l'interno del suo essere, il dentro e il fuori, l'intuizione che il rapporto diretto con la natura si presenti per lei, e non solo per lei, come facilitatore della sua crescita personale. Abbiamo tutti avuto modo di constatare che un  panorama, una passeggiata in mezzo al verde, il contatto e la vista del bello della natura intorno a noi, comunicano gioia, ci fanno star bene, ma altro è sviscerare più approfonditamente i meccanismi interiori di questo benessere avventurandoci in un giardino che ricco di fiori, erbacce e rovi è anche metafora di fiori, erbacce e rovi che hanno dimora nel nostro profondo.
Valutazione del terreno, studio dell'humus, dissodamento, ripulitura dalle erbe infestanti, fantasia e immaginazione per cosa sarà meglio piantare, volontà e tenacia nell'andare avanti anche se il tempo è stato inclemente, anche se un certo seme non ha attecchito, pazienza nel rispettare tempi e ritmi dei cicli naturali molto meno frettolosi dei nostri,  svariate le operazioni richieste per creare uno spazio verde e nella tesi si sottolinea come anche la costruzione della persona segua un percorso parallelo, necessiti di tali coordinate, abbia in fondo le stesse esigenze. Risulterebbe dunque che non c'è solo la gramigna della terra, ma anche quella dell'anima, ovvero quel marasma di pulsioni, paure, ansie, illusioni, dubbi, incertezze che ci abitano, erbacce infestanti che possono ostacolare i nostri sonni tranquilli, sterpaglie difficili da comprendere, controllare, superare. 
E siamo poi sicuri che tutte le "mauvaises herbes" come le definiva il Piccolo Principe, vadano estirpate? " La lotta alle erbacce mi sfiniva, tanto erano duramente inserite nel terreno e ben sapevo che strapparle equivaleva a riprodurle, a dar loro ancora più vigore....Ho cominciato a distogliere la mia attenzione dalle erbacce per passare all'azione, sperimentando nuove specie di piante perenni e tappezzanti che ricoprissero le aree infestate, in altre parole anziché continuare ad estirparle, ho tolto loro spazio vitale semplicemente occupandolo, dopo un'opportuna pulitura, con altre piante.....ho riconosciuto loro dignità di esistere (anche se sotto controllo) consapevole che chiamiamo erbaccia ciò di cui magari non si conoscono ancora le proprietà benefiche e ho dovuto ammettere che alcune erbe infestanti sono anche molto graziose, semplicemente non avevo mai permesso loro di fiorire, definendole brutte a priori come ad esempio la Veronica Agrestis (detta comunemente "occhi della Madonna") che a primavera ricopre aree di prato di miriadi di fiorellini blu intenso". Proseguendo nel parallelismo, giardino esteriore - giardino interiore significa forse imparare ad accettare, accogliere, addomesticandolo, quell' ingarbugliatissimo ma affascinante miscuglio di cui siamo fatti, significa forse trasformare, incanalandola diversamente, quell'energia distruttiva: "Potei verificare che abbandonare la pretesa di avere tutto sotto controllo e di dover sempre correggere le cose, aveva l'effetto non solo di rilassare me stessa ma anche di migliorare la mia relazione con gli altri"
 E molti altri sono gli spunti di riflessione offerti dal lavoro dell'amica, pensare per esempio l'ikebana non solo come un modo giapponese per disporre i fiori, ma come una vera filosofia, quella della ricerca dell'essenziale e di eliminazione del superfluo all'interno della composizione floreale, ma anche esemplare parabola di vita; scoprire una nuova  disciplina nell'ambito delle scienze psicologiche di cui ignoravo l'esistenza, ovvero l'ecopsicologia, "una nuova disciplina che affianca la psicologia all'ecologia, partendo dal riconoscimento della stretta relazione che esiste tra l'uomo e il suo ambiente e dalla reciprocità di questa relazione" poiché come  scrive Marcella Danon nel suo libro Ecopsicologia del 2006. " C'è un legame molto stretto tra le malattie dell'anima e le malattie del mondo".  Non a caso come a New York o a Parigi anche in Italia sono sorti gli orti condivisi, occasione non solo per zappettare, seminare e raccogliere la propria insalatina ma anche per stare semplicemente con gli altri in una comunicazione aperta e c'è ora anche la Garden Therapy per "migliorare la qualità di vita delle persone attraverso la cura delle piante e altre attività connesse"
 Il corso di counseling non l'ho fatto, i nomi dei numerosi studiosi citati e i loro lavori mi sono sconosciuti, non mi sono cimentata in nessun giardino, ma vien voglia di saperne di più perché il percorso sembra affascinante e per intanto potrei cominciare seriamente con le piante del mio balcone che francamente non sembrano molto soddisfatte e chissà che tra una potatura e l'altra.... non migliori anch'io. 

martedì 25 giugno 2013

a Nizza un'estate intera per Matisse

C'è già un mio post di Matisse a Nizza (la-collina-di-cimiez-e-matisse), ma urge parlarne ancora per una grande novità. Quest'estate Nizza non ha proprio badato a spese, e con i tempi che corrono ci vuole un bel coraggio, organizzando tutta una serie di iniziative nei vari spazi espositivi cittadini  per festeggiare i 50 anni del museo Matisse. Ho curiosità di vedermi tutte le mostre in merito, ma per intanto sono già stata a Cimiez per godere dell'esposizione più importante, oli mozzafiato provenienti dal parigino Centre Pompidou, dal MoMa di New York, dal Philadelphia Museum of Art, dalla National Gallery di Washington  e dal Baltimora Museum of Art solo per citare qualche provenienza prestigiosa, spedizione e assicurazioni delle opere saranno costate un patrimonio.


In ogni sede lo sviluppo di un tema diverso legato al sommo artista.
Al Museo Matisse: "Matisse. La musica all'opera", al Museo diArcheologia: "A proposito di piscine" (prendendo spunto dalla donazione del nipote dell'artista al museo della monumentale ceramica "La piscina", guazzi ritagliati del 1952  conservati al MoMa), al Théatre de la Photographie et de l'Image: "Donne, muse e modelli", al Mamac: "Bonjour Monsieur Matisse! Incontri" dove si esplora la sopravvivenza dell'iconografia matissiana dagli anni '60 fino a oggi  attraverso i lavori di diversi artisti, a Palazzo Lascaris nella vecchia Nizza: "Matisse. Gli anni Jazz" focus sul celeberrimo libro Jazz (1943-47), al Museo Massena: "Palme, Rami di Palma e Palmette", mostra monotematica dedicata alle palme sempre presenti nel panorama mediterraneo della Costa Azzurra e nei quadri del pittore, al Museo di Belle Arti Jules Chéret: "Gustave Moreau, Maestro di Matisse" e alla Galleria des Ponchettes: "Matisse in Cartellone" affiche concepite o supervisionate dall'artista. Risultano evidenti ricchezza e varietà del materiale espositivo, solo l'imbarazzo della scelta.

Matisse: Nature morte d'après Jean Davidsz de Hem "La desserte" 1915
Il percorso dell'esposizione "Matisse. La Musica all'opera" si organizza intorno a due grandi nuclei: "Il silenzio della musica" che sottolinea il legame intimo che ha sempre unito Matisse alla musica e le diverse rappresentazioni che egli ne da nella sua opera e la "Sonorità del colore", illustrazione delle corrispondenze intuite dal Maestro fra il colore e il suono, come egli stesso, che in gioventù aveva pensato di diventare "violinista virtuoso", ha avuto modo di sottolineare: "Certes la musique et la couleur n'ont rien de commun, mais elles suivent des voies parallèles. Sept notes, avec des légères modifications, suffisent à écrire n'importe quelle partition. Pourquoi n'en serait-il pas de meme pour le plastique?" Come non pensare a corrispondenze e sinestesie baudleriane? E l'ascolto della musica lo accompagna certamente mentre era al lavoro, sempre presente una radio al capezzale del letto e in una lettera consiglia di fare altrettanto a un amico. Uditore attento e appassionato, ma anche esecutore lui stesso  come leggo sul bellissimo catalogo di Matisse a Nizza " Lavoro & Gioia" che presenta tutte le esposizioni ora in corso. Ci sono le parole riferite in una conversazione dalla moglie Amélie Parayre: " A' Nice, en 1918...il se mit à étudier très sérieusement le violon, et comme un jour, je lui en demandais la raison, Henri me répondit...c'est un fait que je crains de perdre la vue et de ne plus pouvoir peindre. Alors j'ai songé à une chose: Aveugle, on doit renoncer à la peinture, mais pas à la musique..."
   da sinistra: Le Violiniste 1917- La Musique (schizzo) 1907- le Violiniste à la fenetre, Nice,1918


"Toutes mes couleurs chantent ensemble, c'est comme un accord de musique....".  "Il faut peindre comme on chante, sans contrainte....avec aisance et une apparente facilité"


da sinistra: Intérieur à la boite à violon 1918-19. Violiniste et jeune fille (Divertissement), 1921

Anche la danza con la sua musicalità rappresenta un tema ricorrente nell'opera di Matisse. " La danse est une chose extraordinaire: vie et rythme. Il m'est facile de vivre avec la danse" e straordinari non sono solo i paramenti religiosi concepiti per la Cappella del Rosario di Vence, inno gioioso alla spiritualità, ma anche i costumi disegnati per il balletto "Le chant du rossignoli" con la magica regia di Diaghilev, deus ex machina dei Balletti Russi  e la coreografia di Massine, rappresentazioni  a Monte- Carlo nel 1920.
Matisse: La Vague, intorno al 1952

Henri Matisse: La Piscina - Ceramica, due pannelli
Il sottotitolo della mostra " A proposito di piscine" al Museo Archeologico adiacente al Museo Matisse è: "dalle piscine antiche alla rappresentazione contemporanea del corpo con l'acqua" che ben sottolinea come il tema dell'acqua sia strettamente legato al sito di Cimiez, sia per i resti delle antiche piscine termali, sia per la presenza del battistero paleocristiano, simbolo dell'azione iniziatica dell'acqua sullo spirito. Come Matisse con la sua opera "la Piscina" esplora movimenti e percezioni del corpo nell'acqua, così fanno gli artisti contemporanei presenti nella mostra attraverso le più recenti strade espressive dell'arte come fotografie, video e filmati. Anche i reperti archeologici del museo si integrano con la mostra quasi a sottolineare un'eterna continuità dell'acqua e dell'uomo fra passato e presente.

Marie Paul Nègre: Série A' fleur de l'eau 2000-2012




 E' a Nizza che Matisse realizza la maggior parte delle sue opere, dal 1917 fino alla sua scomparsa nel 1954. 
"Quando ho capito che ogni mattina avrei rivisto questa luce non potevo credere alla mia fortuna", parole di gioia e di amore dell'artista per la città che in questa estate 2013 lo ricambia alla grande.



venerdì 21 giugno 2013

e a Denver il viaggio finisce in musica


Denver, la "Mile High City" cioè "la città alta un miglio" perché si trova a 1600 m. di altitudine. Denver, capitale del Colorado, ai piedi delle Rocky Mountains con cime che superano i 4000 metri. Denver un tempo luogo di confine, terra di Arapaho e Cheyenne, ora metropoli di due milioni e mezzo di abitanti  con un'altissima concentrazione di lavoratori in ambito governativo, migliaia di impiegati statali, locali e federali. Denver City fondata nel 1860 e che deve la sua iniziale prosperità all'argento, tra gli anni 70 e 90 dell'800 i giacimenti a Leadville e Aspen hanno trasformato poveri minatori in cerca di fortuna in milionari. Purtroppo meno di 36 le ultime ore del viaggio passate a Denver però ricche di emozioni e tante cose da raccontare. Prima tappa: l'appartamento di mio nipote Marco, la vista diurna e non più notturna che si gode dal suo balcone all'ottavo piano, le stanze sobrie ed essenziali proprio com'è lui; tutti ascetici questi giovani cervelloni! Lo stabile però è una figata: hall d'ingresso super chic in boiserie, nientepopodimeno che sala biliardo e piscina per tutti i condomini considerando che il prezzo dell'affitto è modestissimo rispetto a un buco a New York o a Parigi e poi per andare all'università ci vogliono meno di dieci minuti a piedi.


Seconda tappa: la casa di Cheryl e Jere, una villetta poco distante da casa di Marco in fondo a un bel viale alberato di una zona residenziale.


 A parte che non c'era il tempo per andare in un museo (e francamente il Denver Art Museum con i suoi due edifici progettati da Giò Ponti e Daniel Libeskind avrebbe certo meritato)  ma non serviva proprio, più che esauriente visitare la loro magione che da sola potrebbe riempire un mercatino intero, una vera, inesauribile caverna di Alì Babà. Un numero imprecisato di libri, spartiti e strumenti musicali, CD, gatti, cucce per gatti, bicchieri, foto di famiglia e di filosofi, quadri dipinti dal proprietario e non solo; al posto loro farei pagare il biglietto per visitarla e meno male che non sono io a dover fare le pulizie.



Terza tappa: il pranzo. Finalmente niente messicano o americano ma un bel  brunch "dim sum" al ristorante cinese gremito come un uovo, perché era domenica. Ragazzi, assaggia di qua, assaggia di là, un'abbuffata che sembrava il film di Marco Ferreri.  Coi  bastoncini si è difesa bene anche la nonnetta, la mamma di Cheryl, una deliziosa arzilla signora di venerabile età che sorrideva sempre e mangiava a quattro palmenti . Eravamo in metà di mille intorno al tavolo perché c'erano altri membri di famiglia e amici; io ho parlato tantissimo perché in inglese preferisco parlare invece che ascoltare, almeno così capisco.

Quarta tappa: il giro dell'Università, praticamente una città, ma non è certo una novità che i campus universitari americani sono immensi. Viali alberati, (proibito fumare anche all'aperto), tanti palazzi di varie epoche e varie architetture, dipartimenti e istituti delle diverse discipline che si susseguono.  
Tutti emozionati e naturalmente orgogliosi non potevamo certo mancare la Sturm Hall in cui ha sede il dipartimento di filosofia dove lavora Marco alla stanza 264, accanto alla 261 di Jere. Ambiente piccolo ma luminoso che da' sul giardino, non c'è ancora l'accumulo di libri sulle scansie perché ha cominciato a insegnare qui solo il settembre scorso e il sapere, si sa,  richiede tempi lunghi, ma affissa sulla parete bianca quella bella ironia intelligente del grande Giorgio Gaber che non fa mai male.
Come altre volte in America, ricordo per esempio la visita al College Swarthmore nella periferia di Philadelfia e pare sia lo stesso in Australia, la cosa che mi ha maggiormente impressionata   sono state le strutture sportive; sarà che le nostre scuole spesso sono pericolanti o crollano, sarà che i poli di studio dei nostri lidi a parte rarissime eccezioni ne sono completamente sprovvisti, sarà che sogni e speranze di una scuola migliore per i nostri giovani sono duri a morire. 
Quinto tappa: il pub irlandese. Visti a volo d'uccello dal finestrino della macchina il Colorado State Capitol e la Cattedrale, oltretutto il freddo non invogliava certo alla passeggiata pedestre, la nostra meta era l'Irish Snug dove tutte le domeniche Jere va a divertirsi suonando lo strumento che gli gira quel giorno musica irlandese con gli amici. Semplicemente fantastico, chi vuole, entra, si aggrega alla compagnia nella grande tavolata e si mette a strimpellare. Per essere sicuro di non avere sete Jere aveva davanti a se due bicchieri, uno di birra e uno di whisky, salomonicamente scolati in alternanza. Se penso alla prosopopea di certi cattedratici "baroni" italiani, la scena davanti agli occhi quasi non mi sembra vera. Jere è capo dipartimento della facoltà di filosofia, ha pubblicato non so quanti articoli e libri perché nelle università americane non si scherza, bisogna lavorare sodo e bene per conquistare e mantenere il posto che si ha, non basta essere figlio, fratello, nipote, cugino, protetto di qualcuno per vincere un concorso e sedersi in cattedra.

Sesta e ultima tappa della giornata severamente proibita agli animalisti che a vedere tutti quegli esemplari imbalsamati potrebbero avere una sincope: la cena al Buckhorn Exchange, il più famoso e antico ristorante di Denver. Fondato nel 1898 da Henry Zietz, detto "Shorty Scout", famoso cowboy, grande cacciatore nonché il più giovane membro del gruppo di Buffalo Bill Cody. Si possono soddisfare tutte le curiosità in fatto dei più inimmaginabili tipi di carne che in passato sono state gustate da presidenti, reali inglesi e star cinematografiche nonché da figure storiche come Buffalo Bill in persona e il capo indiano Nuvola Rossa, ma un vegetariano come mio figlio Francesco qui sviene. Nella bellissima cornice vittoriana dell'edificio trovano posto, appesi alle pareti, quel che resta di oltre 500 animali e manufatti preziosi dei nativi americani.

Il viaggio negli States è finito, si torna a casa.  Anfitrioni americani, famiglia ritrovata e l'amica Rita sono stati stupendi compagni di viaggio e li ringrazio di cuore, questa parte dell'America poi mi ha proprio entusiasmata, credo si sia capito dai miei post.  Non mostrerò Denver sotto la neve perché l'ho già fatto né la foto di Cheryl e Jere che ci hanno accompagnato all'aeroporto circondandoci del loro calore fino all'ultimo istante perché Cheryl commossa piangeva come un vitello; preferisco chiudere con le due ultime immagini del mio apparecchio fotografico, quelle della responsabile dei bagagli aeroportuali che si pettina sempre con due penne biro infilate nei capelli, come ci ha confermato a vive voce: a lei piace così.