E non solo l'uva, ma gli alberi ricchi di pere, mele, mele cotogne e avanti con le marmellate, i melograni rossi rossi, i cachi ancora indietro, le dalie in fiore, un vero festino della natura di fine estate con i primi colori dell'autunno che bussa alla porta.
martedì 30 settembre 2014
un uomo degno
mercoledì 24 settembre 2014
il congiuntivo ai Caraibi
E se vi dicessi che ai Caraibi esiste un arcipelago di isole un po' strano? E' abitato dagli umani, da una ricca fauna, da una lussureggiante vegetazione, ma anche e soprattutto dalle parole, parole di tutti i tipi, avverbi, pronomi, nomi, aggettivi, verbi e quel pizzico di sale che talvolta ci si mette sopra, ovvero gli accenti. Seguendo la logica di questo arcipelago pare che gli accenti siano come le spezie per gli alimenti, danno sapore alle parole.
E se vi dicessi che sull'arcipelago regna seminando il terrore un dittatore, il nefasto Nécrole, che si fa chiamare "Monsieur -le-Président-à-vie-et- même- au- delà"? Lui trova che i suoi sudditi parlino troppo, un grande spreco di parole scritte e orali e allora ha proibito quelle inutili, anzi, come risulta dalla circolare ministeriale 453 del 2-02-2013 ne ha autorizzate soltanto dodici: nascere, mangiare, bere, urinare, defecare, dormire, divorziare, sposarsi, lavorare, invecchiare, morire e naturalmente acclamare che per ogni tiranno è indispensabile. E allora tutte le parole proibite si sono ribellate, hanno sfilato in manifestazione brandendo grandi cartelli protestatari fino davanti al palazzo presidenziale, ma Nécrole ha perso l'occasione di catturarle tutte con una grossa rete, mentre erano là riunite in piazza e le ha fatte invece disperdere con gas lacrimogeni. "Se perdiamo le parole, non servirà più incendiare i libri come si è fatto in varie epoche storiche, anche ai nostri giorni, nessuno potrà più raccontare niente, ma come si farà a capire qualcosa?" si interrogano gli abitanti dell'arcipelago che votano la loro solidarietà con le parole e la guerra a oltranza contro Nécrole. Nel frattempo le dodici parole autorizzate, ospitate con tutti gli onori in un'ala del palazzo presidenziale, conducono una vita lussuosa, ma si annoiano da morire, sbadigliano in continuazione; come "morire" che pure ha a disposizione tanto di bara a forma di Ferrari, come per esempio il verbo "mangiare" che certo non si diverte se non può essere accompagnato da nessun commento, da nessun apprezzamento: perbacco com'era buono! che leccornia! rapanello, avocado, lepre in salmì, vinaigrette, charlotte alle pere Williams... le parole hanno il potere di arricchire un piatto, sono anch'esse un nutrimento.
E se vi dicessi che laggiù, in quelle isole lontane è operativa una "fabbrica delle parole"? Se ne inventano di nuove ad ogni istante perché il mondo va avanti, un continuum di scoperte in progress e servono le parole per definirle e poi in quella fabbrica capita di assistere anche a scenate di gelosie fra i sinonimi: per esempio "serenità, gioia, contentezza, letizia, piacere, allegria, beatitudine" ce l'hanno su a morte con "felicità" che la fa da padrone, è sempre lei la più citata, la più chiacchierata, la più agognata, la più scritta e le altre si sentono trascurate. Come ogni stato che si rispetti, poi, su una delle isole dell'arcipelago esiste addirittura un ospedale per le parole malate: corridoi vuoti, nessuna infermiera, ma l'eco di sottili gemiti che dicono la sofferenza inferta da noi umani alle parole: immobile sul suo letto, pallidissima, esausta, giace una piccola frase "je t'aime", solo sette lettere e un apostrofo. -"Sono un po' stanca" - sussurra con un fil di voce- "sembra che ho lavorato troppo. Mi devo riposare". Tutti lo pronunciano a oltranza questo benedetto "je t'aime", nota l'autore, ma bisogna fare attenzione alle parole, non adoperarle a caso, proteggerle, non servirsene come menzogne, perché anche le parole si consumano e talvolta è troppo tardi per salvarle.
E se vi dicessi che da quelle parti può capitare di incontare Antoine, si, proprio quello del Piccolo Principe, e un pallidissimo Marcel chino sulla sua Recherche che non finisce mai e Jean (de la Fontaine) circondato da tanti animali che sembra di essere nell'arca di Noè? Già, quando la morte si avvicina a un grande scrittore, le sue amiche parole, all'ultimo istante, lo rapiscono e lo portano sull'isola, qui e solo qui potrà continuare a vivere grazie alle sue parole impresse per sempre sui fogli bianchi. Senza quelle sue pagine scritte è come se lo scrittore morisse una seconda volta.
Per finire, navigando qua e là si approda all'isola più interessante, quella dei congiuntivi. Lasciamo perdere l'isola degli infiniti che come dice Nécrole non sanno quel che vogliono, lasciamo perdere quella degli imperativi che litigano in continuazione perché tutti comandano e ognuno vuole aver ragione, facile da sottomettere per il dittatore anche il condizionale, un perditempo verbale che emette solo ipotesi e che non ha mai il coraggio di affermare quel che pensa veramente, ma il congiuntivo, ah, il congiuntivo è un'altra cosa! Il congiuntivo è un nemico dell'ordine costituito, un eterno insoddisfatto che da mane a sera desidera o dubita. In un mondo che vuole solo certezze- si può mai costruire una civiltà partendo dal desiderio e dal dubbio? - si chiede Nécrole. Già, il sogno è pericoloso per l'ordine sociale, una malattia nefasta perché evoca l'universo del possibile "vorrei che tutti gli uomini fossero liberi", per esempio. "Réclamer le possible, tout le possible, c'est critiquer le réel, le monde tel qu'il est, la pauvreté, les injustices..." Il sogno sarebbe dunque una battaglia, una battaglia contro la realtà, una battaglia per migliorare la realtà e il congiuntivo risulterebbe il più rivoluzionario dei tempi verbali, per questo il tiranno Nécrole, assetato di "status quo", lo teme e lo vuole eliminare.
Esiste veramente sulla carta geografica un arcipelago come questo? Prima che la fantasia straordinaria di Erik Orsenna lo inventasse era certo introvabile, ma adesso no, c'è, ed è vivo e vegeto. Delle riflessioni profonde piene di poesia come solo le favole sanno essere, un dono prezioso dello scrittore a tutti coloro che amano quel tesoro inestimabile che è ogni lingua. A proposito, se qualcuno ha l'intenzione di organizzare un viaggio da quelle parti, che me lo faccia sapere subito per favore, vorrei aggregarmi anch'io.
E se vi dicessi che sull'arcipelago regna seminando il terrore un dittatore, il nefasto Nécrole, che si fa chiamare "Monsieur -le-Président-à-vie-et- même- au- delà"? Lui trova che i suoi sudditi parlino troppo, un grande spreco di parole scritte e orali e allora ha proibito quelle inutili, anzi, come risulta dalla circolare ministeriale 453 del 2-02-2013 ne ha autorizzate soltanto dodici: nascere, mangiare, bere, urinare, defecare, dormire, divorziare, sposarsi, lavorare, invecchiare, morire e naturalmente acclamare che per ogni tiranno è indispensabile. E allora tutte le parole proibite si sono ribellate, hanno sfilato in manifestazione brandendo grandi cartelli protestatari fino davanti al palazzo presidenziale, ma Nécrole ha perso l'occasione di catturarle tutte con una grossa rete, mentre erano là riunite in piazza e le ha fatte invece disperdere con gas lacrimogeni. "Se perdiamo le parole, non servirà più incendiare i libri come si è fatto in varie epoche storiche, anche ai nostri giorni, nessuno potrà più raccontare niente, ma come si farà a capire qualcosa?" si interrogano gli abitanti dell'arcipelago che votano la loro solidarietà con le parole e la guerra a oltranza contro Nécrole. Nel frattempo le dodici parole autorizzate, ospitate con tutti gli onori in un'ala del palazzo presidenziale, conducono una vita lussuosa, ma si annoiano da morire, sbadigliano in continuazione; come "morire" che pure ha a disposizione tanto di bara a forma di Ferrari, come per esempio il verbo "mangiare" che certo non si diverte se non può essere accompagnato da nessun commento, da nessun apprezzamento: perbacco com'era buono! che leccornia! rapanello, avocado, lepre in salmì, vinaigrette, charlotte alle pere Williams... le parole hanno il potere di arricchire un piatto, sono anch'esse un nutrimento.
E se vi dicessi che laggiù, in quelle isole lontane è operativa una "fabbrica delle parole"? Se ne inventano di nuove ad ogni istante perché il mondo va avanti, un continuum di scoperte in progress e servono le parole per definirle e poi in quella fabbrica capita di assistere anche a scenate di gelosie fra i sinonimi: per esempio "serenità, gioia, contentezza, letizia, piacere, allegria, beatitudine" ce l'hanno su a morte con "felicità" che la fa da padrone, è sempre lei la più citata, la più chiacchierata, la più agognata, la più scritta e le altre si sentono trascurate. Come ogni stato che si rispetti, poi, su una delle isole dell'arcipelago esiste addirittura un ospedale per le parole malate: corridoi vuoti, nessuna infermiera, ma l'eco di sottili gemiti che dicono la sofferenza inferta da noi umani alle parole: immobile sul suo letto, pallidissima, esausta, giace una piccola frase "je t'aime", solo sette lettere e un apostrofo. -"Sono un po' stanca" - sussurra con un fil di voce- "sembra che ho lavorato troppo. Mi devo riposare". Tutti lo pronunciano a oltranza questo benedetto "je t'aime", nota l'autore, ma bisogna fare attenzione alle parole, non adoperarle a caso, proteggerle, non servirsene come menzogne, perché anche le parole si consumano e talvolta è troppo tardi per salvarle.
E se vi dicessi che da quelle parti può capitare di incontare Antoine, si, proprio quello del Piccolo Principe, e un pallidissimo Marcel chino sulla sua Recherche che non finisce mai e Jean (de la Fontaine) circondato da tanti animali che sembra di essere nell'arca di Noè? Già, quando la morte si avvicina a un grande scrittore, le sue amiche parole, all'ultimo istante, lo rapiscono e lo portano sull'isola, qui e solo qui potrà continuare a vivere grazie alle sue parole impresse per sempre sui fogli bianchi. Senza quelle sue pagine scritte è come se lo scrittore morisse una seconda volta.
Per finire, navigando qua e là si approda all'isola più interessante, quella dei congiuntivi. Lasciamo perdere l'isola degli infiniti che come dice Nécrole non sanno quel che vogliono, lasciamo perdere quella degli imperativi che litigano in continuazione perché tutti comandano e ognuno vuole aver ragione, facile da sottomettere per il dittatore anche il condizionale, un perditempo verbale che emette solo ipotesi e che non ha mai il coraggio di affermare quel che pensa veramente, ma il congiuntivo, ah, il congiuntivo è un'altra cosa! Il congiuntivo è un nemico dell'ordine costituito, un eterno insoddisfatto che da mane a sera desidera o dubita. In un mondo che vuole solo certezze- si può mai costruire una civiltà partendo dal desiderio e dal dubbio? - si chiede Nécrole. Già, il sogno è pericoloso per l'ordine sociale, una malattia nefasta perché evoca l'universo del possibile "vorrei che tutti gli uomini fossero liberi", per esempio. "Réclamer le possible, tout le possible, c'est critiquer le réel, le monde tel qu'il est, la pauvreté, les injustices..." Il sogno sarebbe dunque una battaglia, una battaglia contro la realtà, una battaglia per migliorare la realtà e il congiuntivo risulterebbe il più rivoluzionario dei tempi verbali, per questo il tiranno Nécrole, assetato di "status quo", lo teme e lo vuole eliminare.
Esiste veramente sulla carta geografica un arcipelago come questo? Prima che la fantasia straordinaria di Erik Orsenna lo inventasse era certo introvabile, ma adesso no, c'è, ed è vivo e vegeto. Delle riflessioni profonde piene di poesia come solo le favole sanno essere, un dono prezioso dello scrittore a tutti coloro che amano quel tesoro inestimabile che è ogni lingua. A proposito, se qualcuno ha l'intenzione di organizzare un viaggio da quelle parti, che me lo faccia sapere subito per favore, vorrei aggregarmi anch'io.
lunedì 22 settembre 2014
criticare Israele si può.....
Questa è bella! Sono italiana, vivo a Milano, ma, come in questo caso, è frequentemente un mio cugino a mandarmi da Tel Aviv filmati, notizie, articoli che appaiono sui media del mio paese che non ho letto o saputo vedere... Non parlo quasi mai di politica e ne scrivo ancora di meno, da una parte non ne so abbastanza, dall'altra le situazioni " in loco" sono molto più complesse della semplicità manichea con la quale vengono spesso tradotte e poi mi disturba discettare di nobili ideali e di pacifismi impossibili stando comodamente seduti con tè e biscottini nel salotto di casa a migliaia di chilometri di distanza. Tutte le posizioni, anche le più estreme, magari non sono condivisibili ma legittime quando si vive "sul posto", all'interno di una certa realtà, ma da lontano, in balia di informazioni parziali, spesso manipolate o condizionate da ideologie "a priori", troverei più opportuna una maggiore precauzione nell'esprimere certezze, nell'emettere sentenze . Così quest'estate, mentre mio cugino moriva di paura perché un razzo era caduto proprio vicino all'asilo di sua nipote, mentre probabilmente la madre novantenne della mia amica Miriam aveva delle difficoltà ad andare di corsa ogni due per tre nel rifugio sotto casa, mentre civili palestinesi morivano drammaticamente per le strade perché nei bunker sotterranei i loro dirigenti politici di stampo terroristico ci proteggono le armi e non gli uomini (è stato trovato e pubblicato un manuale propedeutico di Hamas sull'uso strumentale delle vittime civili), ho letto e sentito parole, prese di posizioni, giudizi a cui non ho saputo rispondere come avrei voluto. Forse per questo mi è piaciuto tanto questo articolo del giornalista Christian Rocca in cui mi riconosco pienamente e seppur in ritardo lo condivido.
Criticare Israele si può, ma così è nuovo
antisemitismo
4 settembre 2014 IL – Il mensile del Sole 24 ORE
"Mai un appello di intellettuali occidentali rivolto ad Hamas o ad Al Qaeda o agli Ayatollah affinché rinuncino alla violenza, all’odio razzista, ai missili, ai kamikaze, al terrorismo. Mai. Nemmeno un tweet. Gli intellettuali occidentali si appellano solo a Israele, perché si ritiri, perché rimuova l’embargo, perché fermi l’esercito. E poi boicottano. Boicottano gli studenti israeliani, i professori israeliani, anche le aziende israeliane di acqua gassata. In teoria, ma solo in teoria, tutto questo potrebbe anche avere un senso perché Israele è un Paese democratico con un’opinione pubblica che può influenzare le scelte del governo, mentre le altre sono organizzazioni terroristiche di stampo religioso non particolarmente sensibili alle prediche peace&love.
Ma è inutile girarci intorno: l’antisionismo è il nuovo antisemitismo. È una versione aggiornata, ipocrita e politicamente corretta dell’antico pregiudizio antiebraico ben radicato a destra come a sinistra nella tradizione europea. Non c’è altro esempio di Paese messo in discussione in quanto tale. Non c’è altro esempio di Stato circondato da nemici che non ne riconoscono l’esistenza e da detrattori internazionali che lo mettono costantemente in discussione. Non c’è altro esempio di nazione criticata perché si difende da attacchi continui e ripetuti contro la sua popolazione e nonostante sia sempre pronta a deporre le armi, come ha già fatto, nel momento esatto in cui le autorità vicine smettano di voler spillare sangue ai «porci» e alle «scimmie» ebree.
Certo che è lecito criticare il governo di Israele, come quello di qualsiasi altro Paese. Certo che è giusto piangere le troppe vittime civili di un conflitto armato drammatico e infinito. Epperò quando si criticano le politiche russe o tedesche o siriane o iraniane o nordcoreane nessuno nega il diritto di russi, tedeschi, siriani, iraniani o nordcoreani a vivere serenamente in uno Stato, fianco a fianco con vicini rispettosi e pacifici. Nessuno vuole cancellare la Russia, la Germania, la Siria, l’Iran o la Corea del Nord dalla cartina geografica. Nessuno li chiama con disprezzo «entità» né definisce «razzista» con egida Onu il diritto alla loro esistenza.
Qual è dunque la differenza tra le critiche a questi e altri Paesi e quelle a Israele? Una soltanto: Israele è lo Stato degli ebrei. Come è possibile, inoltre, criticare il governo di Israele sempre, comunque e in ogni occasione, quando è di sinistra ma anche quando è di destra, quando è di unità nazionale e quando è di minoranza, quando cerca la pace con i vicini e quando non si fida degli interlocutori? Possibile che questo governo sia sempre criminale, ogni singolo giorno dell’anno dal 1948 a oggi? Che cosa nasconde la critica indistinta e imperitura al «governo di Israele» sia che lo guidi Begin sia che lo guidi Rabin, quando il leader è Sharon e quando lo è Peres, se al potere c’è Barak e anche se c’è Netanyahu?
Delle due l’una: o dietro questa fanatica e ingiustificata ossessione anti israeliana ci sono le ultime scorie ideologiche delle dottrine comuniste, antimperialiste e antiliberali oppure, appunto, è una critica radicata nell’antisemitismo. In entrambi i casi siamo in zona spazzatura della storia, e senza necessità di raccolta differenziata.
Ai firmatari degli appelli contro lo Stato ebraico evidentemente non importa che Hamas abbia come obiettivo principale distruggere Israele, instaurare la legge islamica e proclamare una Palestina Judenfrei. Non gli interessa che le guerre mediorientali di aggressione araba siano cominciate il giorno stesso della proclamazione all’Onu dello Stato di Israele. Non gli risulta che lo Stato palestinese non sia nato, contemporaneamente a quello israeliano come previsto dalla risoluzione Onu 181, per espressa scelta dei Paesi arabi che invece hanno preferito attaccare gli ebrei per provare a impedire la nascita di Israele. Non importa che da sessantasei anni Israele non faccia altro che difendersi e per questo sia diventato più che sospettoso dei suoi interlocutori e vieppiù arrogante, spietato e crudele con i nemici (sul trionfo e la tragedia di Israele leggete My Promised Land del giornalista pacifista israeliano di Haaretz Ari Shavit e scaricate la nuova serie tv della Bbc The Honorable Woman con Maggie Gyllenhaal). Ma che deve fare, Israele, farsi gentilmente annientare?
Gli israeliani, per i firmatari degli appelli, non si possono difendere del tutto, non devono esercitare la loro superiorità militare, forse dovrebbero morire un po’ di più in modo da pareggiare i conti con le vittime dell’altra parte. L’ebreo buono è sempre quello che muore, e non è nemmeno detto. In L’eterno antisemita, Henryk Broder cita uno psichiatra israeliano, Zvi Rex, che offre una spiegazione apparentemente paradossale e grottesca del rancore e del risentimento occidentale contro gli ebrei noto come "antisemitismo secondario": «I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per Auschwitz». Qui i tedeschi non c’entrano niente, ma su certi intellettuali da appello meglio non scommettere".
Christian Rocca
giovedì 18 settembre 2014
sempre più vicini, sempre più lontani
Nell'inserto "La Lettura" del Corriere della Sera del 7 settembre, ho letto un articolo del filosofo Giovanni Reale che ha suscitato varie riflessioni: l'articolo si intitolava "Heidegger anti-web: le cose ci sfuggono se sono troppo vicine". Non conosco diversi pensatori che l'autore evoca per sostenere i suoi ragionamenti, sottolineare cioè non solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi della rivoluzione informatica, alcune citazioni però mi hanno colpito. Quella per esempio del filosofo francese Paul Virilio secondo cui la rivoluzione dell'informatica costituirebbe una "tragedia della conoscenza", "una confusione babelica dei saperi individuali e collettivi" poiché, spiega Reale "l'automatizzazione delle conoscenze e dei saperi, infatti, si sostituisce alla diretta "interazione fra le cose e l'intelligenza degli uomini" e, quindi, elimina i linguaggi delle vive parole e delle cose, e provoca "una dimenticanza della realtà" nel suo spessore ontologico, sostituendola con il virtuale". Una dimenticanza non solo delle cose, ma anche degli altri uomini. E Giovanni Reale cita poi Karl Jaspers che già nel lontano 1939 si interrogava su "...questo mondo della responsabilità anonima, che grazie alla propria arte di organizzazione ha poi portato a un mondo della reciproca estraneità. Chi è il vicino con cui viviamo?" Probabilmente banalizzando questi concetti, ho cercato di applicarli e verificarne la validità nella mia modesta realtà, quella cioè di una blogger che ogni giorno passa delle ore davanti al computer, uno scrivere solitario, un isolamento progressivo che mi porta delle gratificazioni ma che certo ha ridotto grandemente gli spazi della mia socialità. In qualche modo sono cambiata, non ho più lo stesso bisogno dell'incontro, cerco meno il confronto diretto con "l'altro" perché mi "autosoddisfo" attraverso la conversazione virtuale con lo schermo, in fondo l'occasione di dire in quella sede, a ruota libera, i miei pensieri senza un autentico confronto-riscontro umano, con il rischio reale di diventare un orso solitario che lancia parole nel vuoto, cosa che in parte sta già avvenendo. Attraverso un programma che mio figlio Francesco mi ha installato, posso poi verificare giornalmente in quanti mi hanno letto, quali articoli, da quali paesi; sono contenta, anonimi lettori servendosi probabilmente del traduttore automatico molto impreciso, ma comunque meglio che niente, o italiani che vivono all'estero, scelgono o capitano per caso sul mio blog dai paesi più lontani e più disparati, entro così nelle case del Bahrein e del Giappone, in Cina e persino in Uzbekistan, viaggio virtuale da un certo punto di vista assolutamente "straordinario". Però cosa ne so di dove vado a finire? Chi sono questi fantomatici lettori? Che scambio reale, umano, abbiamo insieme? Non consapevole dei risvolti filosofici, per la verità ci ho già pensato in passato a questa vicinanza sempre più lontana, ho anche esplicitato il desiderio di un "contatto" in un post di qualche tempo fa http://www.saranathan.it/2013/07/toc-toc-se-ci-sei-batti-un-colpo-per.html, ma è un'impresa impossibile, una battaglia da Don Chisciotte contro i mulini a vento e non a caso Reale riporta nel suo articolo le parole di Hans-Georg Gadamer, che non conosco, ma che mi sembrano molto eloquenti: "Nel frattempo si comincia a parlare di una "computer age", nella convinzione non infondata che l'intero stile di vita fra gli uomini stia cambiando radicalmente. Quando un tocco di bottone rende raggiungibile il vicino, questo sprofonda in una lontananza irraggiungibile". Allora che fa? Abbandono l'opportunità virtuale e per tornare alla realtà lascio perdere il blog e mi ributto nel confronto del tu per tu in carne ed ossa? Certo che no, ma facendo attenzione al consiglio finale, ovvio ma non scontato, con cui il filosofo termina il suo articolo: ..."che l'uomo impari a fare uso in "giusta misura" delle sue creazioni, e a non diventarne schiavo, come in molti casi sta succedendo".
mercoledì 17 settembre 2014
Ronda, tappa del "Grand Tour" dei viaggiatori romantici
E da qualunque parte si guardi, dal Puente Nuevo di fine XVIII° secolo che sovrasta la gola attraversata dal fiume Guadalevìn o dal Ponte Vecchio detto anche Ponte Arabo del 1500, gli scorci panoramici risultano sempre straordinari. Facilmente intuibile il fascino esercitato dalla cittadina sugli scrittori romantici che hanno un rapporto privilegiato con la natura nelle sue manifestazioni più estreme e ne attingono grande ispirazione.
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