mercoledì 25 marzo 2020

Bretagna: Rennes (1)

A Vannes non c'è l'aeroporto, Nantes e Rennes sono più o meno equidistanti dal golfo del Morbihan e allora, visto che nella  città sulla riva della Loira ho già fatto una capatina due estati fa tornando dall'île d'Yeu, ( http://www.saranathan.it/2018/10/nantes.html) stavolta ho scelto di rientrare a Milano da Rennes, capitale amministrativa della Bretagna, città che non conosco e che mi dicono molto vivace, affollata com'è di giovani studenti universitari. Un'ora e un quarto di treno ed eccomi nella modernissima stazione di Rennes. Non è moderno invece l'albergo art déco che mi sono sono prenotata per una notte in pieno centro, questione di poter scarpinare agevolmente in tutte le direzioni. E' domenica, sono le due del pomeriggio, mollo la valigia, mi bevo un caffè e via......
In effetti  l'animazione non manca, nella monumentale Place de l'Hotel de Ville con svariati palazzi fra cui il municipio e il teatro dell'Opera, dei giovani dottorandi in maschera festeggiano i successi scolastici, con uno swing a tutto volume una coppia di ballerini volteggia leggiadra per fare pubblicità a una nuova scuola di danza (mi viene in mente il film "Shall we dance?" con il fascinoso Geere) e una fiumana ininterrotta deambula sulla pedonale rue d'Estrée e la sua prosecuzione, la rue le Bastard. In giro c'è davvero una bella atmosfera, sono contenta, mi piace questo primo approccio.


Da buona turista mordi e fuggi ho sempre la cartina in mano, ma vuoi un mio senso d'orientamento catastrofico, studio la mappa e poi riesco ad andare dalla parte opposta, vuoi che mi piace "flâner", come dicono i francesi, non sono avvezza a visite sistematiche e razionali,  lascio sempre sbizzarrire il caso. Come a Vannes, anche a Rennes si fanno notare delle bellissime case a colombages, ben conservate e numerose in città. Capito poi quasi subito davanti alla cattedrale Saint Pierre, la terza che viene eretta sullo stesso sito. La prima risale al V° secolo come attesterebbe la scoperta di fondazioni romane sotto il portico dell'entrata. Nel XII° secolo è la volta di una cattedrale gotica e tra il 1541 e il 1705 la costruzione di quella che vediamo oggi, misto di gotico e di romanico, con ulteriori rifacimenti a inizio '800.  Assolutamente magnifica la pala d'altare consacrata alla vita della Vergine Maria e all'infanzia del Cristo, creazione degli atelier artistici di Anversa che nel XVI° secolo si erano specializzati in queste realizzazioni in legni policromi esportate poi in tutta l'Europa dell'epoca.
 
Rennes ha una storia antichissima, ne testimonia quel che resta delle fortificazioni gallo-romane e delle successive medievali. Chiamano il sito "la porte mordelaise",  una costruzione che rappresentava l'ingresso entro le mura della cittadella. Accanto scorre l'acqua di due fiumi che qui si incontrano, la Vilaine e l'Ille. L'ho sempre pensato che tutte le città sul fiume sono belle e Rennes conferma la mia idea, di fiumi ne ha addirittura due. Ci sono delle chiatte attraccate, su quella che mostro c'era un cartello con su scritto "barbier et coiffeur". 
Tutta circondata da splendidi hôtel particulier  è la gigantesca Place des Lices che nel corso dei secoli ne ha viste di tutti i colori, tornei, feste popolari, manifestazioni, ma anche tristemente esecuzioni capitali, uno spettacolo seguitissimo nel passato e francamente  ho sempre stentato a capirne le ragioni. Adesso il sabato si tiene uno dei più grandi e rinomati mercati all'aperto, in mezzo alla piazza anche due belle strutture di fine '800 coperte che chiamano "les halles Martenot", dal nome dell'architetto che le ha concepite. 
Poco distante un'altra animatissima piazza, da un lato l'antichissimo Couvent des Jacobins trasformato in Centro Congressi e di fronte l'imponente basilica Notre-Dame-de-Bonne-Nouvelles.  E' domenica, trovo tutto chiuso limitandomi a guardare gli esterni. Cala l'imbrunire e ho i piedi in fiamme, ma a Rennes ci sono ancora delle belle cose da scoprire, le racconterò nel prossimo post.


domenica 22 marzo 2020

Marceline e la sua vita "balagan"

Riprendo fra le bozze un post che avevo iniziato nell'aprile del 2018 e che poi, non ricordo perché, avevo mollato lì senza terminare. Allora Marceline era viva e vegeta e il suo volto, segnato più da solchi che da rughe, sprizzava ancora scintille; adesso non c'è più, se n'è andata per quei lidi lontani il 18 settembre 2018, pochi mesi dopo che l'avevo scoperta. L'indomani in libreria avevo subito comprato e letto tutto d'un fiato quel suo libro autobiografico presentato nella trasmissione televisiva, "Et tu n'es pas revenu" (Grasset 2015), una struggente lettera aperta scritta al padre. Finalmente le esce dal cuore e dalle sue insondabili profondità molti molti anni dopo, una lunga lettera d'amore per un padre molto amato che non è più tornato. "J’ai vécu puisque tu voulais que je vive. Mais vécu comme je l’ai appris là-bas, en prenant les jours les uns après les autres. Il y en eut de beaux tout de même. T’écrire m’a fait du bien. En te parlant, je ne me console pas. Je détends juste ce qui m’enserre le cœur. Je voudrais fuir l’histoire du monde, du siècle, revenir à la mienne, celle de Shloïme et sa chère petite fille". Nel 1944 lei e il padre erano stati deportati insieme, lui Schloïme a Auschwitz, lei Marceline, 15 anni appena, a Birkenau. Li separavano solo tre chilometri, tre chilometri di filo spinato, di campi, di blocchi, di crematori. Come il padre le aveva predetto quando erano ancora detenuti a Drancy, Marceline ritornerà da sola e 70 dopo aprirà la porta ai ricordi raccontando con intensa e terribile lucidità della prigionia, del ritorno, della sua vita "dopo".


 La parola "balagan"  (che l'ebraico moderno ha preso in prestito dall'yiddish) a casa mia era di uso corrente. Mia madre la pronunciava gravemente come una sentenza senza appello ogni volta che metteva piede in camera mia, praticamente tutti i giorni, e c'era quel disordine bestiale in cui gli adolescenti sono imbattibili specialisti. Mio padre, meno pragmatico e più intellettuale, riteneva invece che quel casino, quella confusione, quel "balagan", io ce l'avessi in testa, piena di idee contraddittorie  non ancora organizzate né sedimentate. In sostanza secondo lui ero matta da legare e forse aveva ragione. Insomma, per un verso o per un altro erano anni di grande "balagan", quelli della mia gioventù. Figuriamoci se poi non ha fatto tilt un altro libro di Marceline Loridan-Ivens  "Ma vie balagan" (edizioni Robert Laffont 2008), roba da amarlo prima ancora di leggerlo, è bastato il titolo. Di Marceline, un'arzilla signora dai capelli rossi,  di nove decenni sulle spalle, carica di humour e di esperienze tremende, ho fatto conoscenza un giovedì sera alla televisione a Nizza guardando la mia trasmissione cult, "La grande Librairie", panoramica sempre stimolante delle ultime novità letterarie e di approfondimenti tematici; (confesso tra parentesi che del suo presentatore, François Busnel, mi sono anche un po' innamorata). Il tema della serata era la letteratura autobiografica e gli invitati erano degli autori che hanno saputo dar voce a ricordi, a esperienze, a quel tratto di percorso personale che però finisce per parlare a tutti quando è sostenuto dal senso, dall'onestà intellettuale, da una scrittura potente.
Sarà anche stata una vita "balagan" quella della Marceline, ma che vita, che ricchezza di esperienze, le più tremende e per fortuna certe pure entusiasmanti. Forse la sua  non è nemmeno una vita sola, ma un'infinità di vite, quella del presente e quella di un indicibile passato di cui è impossibile liberarsi e condiviso in parte con la compagna di deportazione Simone Veil, quella di una giovane di 15 anni che si ritrova a Auschwitz-Birkenau col numero marchiato sul braccio, quella che, tornata a casa a guerra finita, per oltre un anno e mezzo è talmente distrutta che non sa neanche chi è, quella che poi si lancia nelle notti parigine senza freni e in prima linea in tutte le battaglie, per il partito comunista, per il FLN, il fronte di liberazione nazionale per l'indipendenza algerina, per la legge sull'aborto, quella che incontra infine il secondo marito, il regista Joris Ivens e insieme  faranno un pezzo di storia del cinema, insieme in Vietnam sotto i bombardamenti, insieme a Pechino durante la rivoluzione culturale. In " Ma vie balagan" un flusso ininterrotto collega il presente con frammenti di ricordi, vicissitudini, ideali e battaglie; dominano su tutto un gran gusto per il vivere malgrado il peso di un passato che non passa e il coraggio di essere trasgressiva alle regole imposte,  ribelle di fronte al sopruso, ad ogni ingiustizia. La matassa delle innumerevoli vite di Marceline comincia a dipanarsi nel suo libro il 19 marzo 2006 nella sua casa parigina di Rue des Saints-Pères, quel giorno compiva 78 anni; comprensibilmente ha qualche acciacco ma parla al suo corpo e gli dice di lasciarla in pace almeno per il giorno del compleanno, ci sono già  altri dolori  che la fanno soffrire, basta e avanza. Un libro "balagan" senz'altro perché ricordi e riflessioni non seguono un filo logico, cronologico o tematico, come ogni magma interiore sono scomposti, disordinati, saltano di palo in frasca, ma dicono chiaro e tondo senza fard quello che vogliono dire, acutezza e sincerità che si possono permettere solo coloro che hanno tanto vissuto e tanto sofferto: "Savoir vieillir, c'est savoir faire son chemin jusqu'au bout. Le bout, on le connait, il n'y a pas de bout. Alors c'est le chemin qui compte".



giovedì 19 marzo 2020

il golfo di Morbihan: Port Navalo e l'île aux Moines

Ho lasciato Milano per Nizza ai primi di febbraio con l'intenzione di tornare dalla Madonnina  tre settimane dopo; in programma seguivano qualche giorno ad Istanbul e una capatina a Bordeaux, i biglietti aerei erano già prenotati. Mister Corona ha fatto saltare tutto,  a Milano non ci sono più tornata, non mi sembrava il caso, in Italia l'epidemia era già scoppiata mentre in Costa Azzurra la vita scorreva ancora normale, si poteva passeggiare, mangiare in spiaggia al sole davanti al mare, incontrare gli amici, andare a Ventimiglia a fare la spesa nel suo splendido mercato e comprarmi le sigarette che in Francia costano il doppio e poi la mia marca proprio non c'è. Poi Mister Corona, grande giramondo, è sbarcato anche da queste parti e le frontiere si sono chiuse, i telegiornali aggiornano drammaticamente di morti e malati e io ho cominciato a farmi l'autocertificazione per uscire e riempire la sporta di insalata, pomodori e mele, francamente non capisco perché la gente compri tonnellate di carta igienica, programmano forse di fare la cacca per l'eternità ? Per il resto, sola soletta me ne sto a casa anch'io come tutti di questi tempi bui e mi ci vorrebbe una segretaria per smistare la mole di posta che ricevo via internet da famiglia e amici, pareri e consigli di immunologi, virologi, addetti ai lavori, riflessioni seriose e cazzate a mai finire, ma va bene così, la reclusione forzata scatena la fantasia e ridere è notoriamente salutare.
Per controbilanciare il "chiuso" attuale fra le quattro mura ed evadere almeno con la mente, mi risulta quanto mai benefico riguardare le foto di quella meravigliosa natura del golfo di Morbihan del settembre scorso, orizzonti infiniti, le vecchie case di pietra, le ortensie in fiore, il gioco delle maree e "così tra questa immensità s'annega il pensier mio e il naufragar m'è dolce in questo mar" direbbe il poeta. Il golfo di Morbihan è alimentato dalle acque di quattro fiumi e naturalmente dall'oceano che avanza e si ritira e le foto che mostro sono di Port Navalo ( Porzh Noalou in bretone) all'estremità nord del golfo, dove, a una ventina di minuti in macchina da Vannes, mi porta una mattina l'amica Brigitte. E' un antico porto di pesca costiera degli inizi del XX° secolo e uno dei punti di partenza privilegiati per visitare in barca le isole del golfo e anche quelle dell'oceano.
E nel mio terzo giorno di soggiorno bretone ce ne andiamo nel "piccolo mare" (questo il significato di Mor bihan)  alla scoperta della magnifica  "île aux moines" perché fra isole e isolotti nel golfo  ce n'è una trentina, ma solo due per superficie e popolazione sono degne di nota, l'île aux moines appunto e l'île Arz.  Il traghetto lo prendiamo a Port Blanc, dalla parte opposta di Port Navalo e mai tragitto marino fu più breve,  7 minuti precisi, la xamamina per il mal di mare non serve davvero. Bella, bella, bella, ho adorato questo luogo tanto che mi piacerebbe venirci a passare le vacanze in estate. Gambe in spalla l'isola non ce la siamo girata tutta, ma quasi.
Su questa stretta lingua di terra lunga sette chilometri nel 2017 si contavano 606 abitanti, certo ben altri numeri d'estate con i vacanzieri e ho letto che  nella tradizione dell'isola sono da sempre le ragazze a scegliersi il marito, perché da sempre sono le donne a gestire l'economia isolana, gli uomini, marinai di lungo corso, erano sempre lontani. Tanta natura, tanti fiori e tanto silenzio, l'oceano che fa capolino da ogni angolo . Non solo scorci panoramici e lunghe spiagge, ho trovato ricca di fascino l"ambientazione tradizionale bretone con le sue case in pietra di granito e le persiane rosse o blu, i tetti in ardesia o paglia. Case antichissime, su una ho trovato scritto 1613.
E, sul versante esposto al sole e al riparo dai forti venti, non poteva certo mancare la chiesa, l'Eglise Saint Michel, semplice e spoglia come piace a me. Nei secoli passati erano qui che, a fine messa avvenivano i dibattiti pubblici e le riunioni degli abitanti. Grazie Brigitte, mi hai fatto scoprire un altro angolo di paradiso.