Riprendo fra le bozze un post che avevo iniziato nell'aprile del 2018 e che poi, non ricordo perché, avevo mollato lì senza terminare. Allora Marceline era viva e vegeta e il suo volto, segnato più da solchi che da rughe, sprizzava ancora scintille; adesso non c'è più, se n'è andata per quei lidi lontani il 18 settembre 2018, pochi mesi dopo che l'avevo scoperta. L'indomani in libreria avevo subito comprato e letto tutto d'un fiato quel suo libro autobiografico presentato nella trasmissione televisiva, "Et tu n'es pas revenu" (Grasset 2015), una struggente lettera aperta scritta al padre. Finalmente le esce dal cuore e dalle sue insondabili profondità molti molti anni dopo, una lunga lettera d'amore per un padre molto amato che non è più tornato. "J’ai vécu puisque tu voulais que je vive. Mais vécu comme je l’ai appris là-bas, en prenant les jours les uns après les autres. Il y en eut de beaux tout de même. T’écrire m’a fait du bien. En te parlant, je ne me console pas. Je détends juste ce qui m’enserre le cœur. Je voudrais fuir l’histoire du monde, du siècle, revenir à la mienne, celle de Shloïme et sa chère petite fille". Nel 1944 lei e il padre erano stati deportati insieme, lui Schloïme a Auschwitz, lei Marceline, 15 anni appena, a Birkenau. Li separavano solo tre chilometri, tre chilometri di filo spinato, di campi, di blocchi, di crematori. Come il padre le aveva predetto quando erano ancora detenuti a Drancy, Marceline ritornerà da sola e 70 dopo aprirà la porta ai ricordi raccontando con intensa e terribile lucidità della prigionia, del ritorno, della sua vita "dopo".
La parola "balagan" (che l'ebraico moderno ha preso in prestito dall'yiddish) a casa mia era di uso corrente. Mia madre la pronunciava gravemente come una sentenza senza appello ogni volta che metteva piede in camera mia, praticamente tutti i giorni, e c'era quel disordine bestiale in cui gli adolescenti sono imbattibili specialisti. Mio padre, meno pragmatico e più intellettuale, riteneva invece che quel casino, quella confusione, quel "balagan", io ce l'avessi in testa, piena di idee contraddittorie non ancora organizzate né sedimentate. In sostanza secondo lui ero matta da legare e forse aveva ragione. Insomma, per un verso o per un altro erano anni di grande "balagan", quelli della mia gioventù. Figuriamoci se poi non ha fatto tilt un altro libro di Marceline Loridan-Ivens "Ma vie balagan" (edizioni Robert Laffont 2008), roba da amarlo prima ancora di leggerlo, è bastato il titolo. Di Marceline, un'arzilla signora dai capelli rossi, di nove decenni sulle spalle, carica di humour e di esperienze tremende, ho fatto conoscenza un giovedì sera alla televisione a Nizza guardando la mia trasmissione cult, "La grande Librairie", panoramica sempre stimolante delle ultime novità letterarie e di approfondimenti tematici; (confesso tra parentesi che del suo presentatore, François Busnel, mi sono anche un po' innamorata). Il tema della serata era la letteratura autobiografica e gli invitati erano degli autori che hanno saputo dar voce a ricordi, a esperienze, a quel tratto di percorso personale che però finisce per parlare a tutti quando è sostenuto dal senso, dall'onestà intellettuale, da una scrittura potente.
Sarà anche stata una vita "balagan" quella della Marceline, ma che vita, che ricchezza di esperienze, le più tremende e per fortuna certe pure entusiasmanti. Forse la sua non è nemmeno una vita sola, ma un'infinità di vite, quella del presente e quella di un indicibile passato di cui è impossibile liberarsi e condiviso in parte con la compagna di deportazione Simone Veil, quella di una giovane di 15 anni che si ritrova a Auschwitz-Birkenau col numero marchiato sul braccio, quella che, tornata a casa a guerra finita, per oltre un anno e mezzo è talmente distrutta che non sa neanche chi è, quella che poi si lancia nelle notti parigine senza freni e in prima linea in tutte le battaglie, per il partito comunista, per il FLN, il fronte di liberazione nazionale per l'indipendenza algerina, per la legge sull'aborto, quella che incontra infine il secondo marito, il regista Joris Ivens e insieme faranno un pezzo di storia del cinema, insieme in Vietnam sotto i bombardamenti, insieme a Pechino durante la rivoluzione culturale. In " Ma vie balagan" un flusso ininterrotto collega il presente con frammenti di ricordi, vicissitudini, ideali e battaglie; dominano su tutto un gran gusto per il vivere malgrado il peso di un passato che non passa e il coraggio di essere trasgressiva alle regole imposte, ribelle di fronte al sopruso, ad ogni ingiustizia. La matassa delle innumerevoli vite di Marceline comincia a dipanarsi nel suo libro il 19 marzo 2006 nella sua casa parigina di Rue des Saints-Pères, quel giorno compiva 78 anni; comprensibilmente ha qualche acciacco ma parla al suo corpo e gli dice di lasciarla in pace almeno per il giorno del compleanno, ci sono già altri dolori che la fanno soffrire, basta e avanza. Un libro "balagan" senz'altro perché ricordi e riflessioni non seguono un filo logico, cronologico o tematico, come ogni magma interiore sono scomposti, disordinati, saltano di palo in frasca, ma dicono chiaro e tondo senza fard quello che vogliono dire, acutezza e sincerità che si possono permettere solo coloro che hanno tanto vissuto e tanto sofferto: "Savoir vieillir, c'est savoir faire son chemin jusqu'au bout. Le bout, on le connait, il n'y a pas de bout. Alors c'est le chemin qui compte".
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